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 2015  ottobre 02 Venerdì calendario

Grom, Unilever e il paradosso della qualità: «Se un gelato al pistacchio diventa apprezzatissimo perché la materia prima proviene da una piccola enclave irripetibile, dunque da una biodiversità limitata nello spazio e da un raccolto limitato nella quantità, come aumentare la produzione senza cambiare la natura del prodotto? Come crescere senza “perdere l’anima”?». Se lo chiede Michele Serra

Essere piccoli e bravi. Partire da zero e inventare qualcosa di bello o di buono. Avere un grande successo. Venire notati e corteggiati dalle grandi multinazionali del settore, per le quali la qualità ormai non è più “nicchia”.
Ma è un’arma decisiva per battersi su mercati sempre più grandi. E dover decidere se vendere, garantendo alla propria impresa (e a se stessi) solide basi finanziarie, ma non essendo più i veri padroni del prodotto.
La storia dei due ex ragazzi piemontesi Martinetti e Grom, creatori in pochi anni di una rete di gelaterie di alta qualità appena venduta al gigante alimentare Unilever, è paradigmatica del complicato e spesso conflittuale rapporto tra quantità e qualità. Che nella società di massa riguarda un po’ tutti i settori di consumo (cultura, vacanze, comunicazione, informazione, perfino l’offerta politica), ma nel cibo trova una delle sue più efficaci rappresentazioni, in primo luogo nella vivace dialettica tra locale e globale. Per esempio: se un gelato al pistacchio diventa apprezzatissimo perché la materia prima proviene da una piccola enclave irripetibile, dunque da una biodiversità limitata nello spazio e da un raccolto limitato nella quantità, come aumentare la produzione senza cambiare la natura del prodotto, la sua storia, la “filosofia” di quel gelato? Come crescere senza “perdere l’anima” (dilemma che ci porta molto più in là di un dibattito aziendale…)? E d’altro canto: il fatto che colossi dell’alimentazione spendano attenzione e denaro per acquisire piccole o medie realtà nate a stretto contatto con il territorio e con i produttori di materia prima, non è forse una vittoria per quella cultura della qualità che ha dato appeal e forza sistemica alla produzione italiana di cibo, e di altro? Se il grattacielo guarda alla bottega, è solo per mangiarsela in un boccone o anche per mutuare, da quella bottega, anche cose che non sa?
Il tema è complesso e dunque non merita tirate moralistiche sui “quattrini che rovinano tutto”; ma neanche può accontentarsi dei comunicati aziendali che (ovviamente) assicurano «continuità». Nessuno, comprando una ricetta di chiara fama, lascerebbe intendere di volerne mutare gli ingredienti: eppure, cambiando scala di mercato, aumentando il successo e il fatturato, in qualche modo la mutazione è inevitabile. La qualità è per tutti? Può essere garantita anche quando i numeri strappano di mano il timone a chi aveva impostato la rotta, da ragazzo, sognando le cose che si sognano da ragazzi? E la quantità, è davvero destinata per sua natura a creare serialità, anonimato, prodotti “senz’anima”?
Sono grandi domande, meglio dunque non dare piccole risposte. Forse neanche Grom e Unilever sanno esattamente che cosa aspettarsi, né come andrà a finire. La bottega entra nel grattacielo con la solenne promessa di non venirne fagocitata. Ma il grattacielo è infinitamente più grande e non è fatto da una somma di botteghe. È strutturato e pensato come una enorme fabbrica di efficienza e di profitto, chissà se in Consiglio di amministrazione qualcuno avrà il tempo di considerare le minute differenze sulle quali l’eccellenza alimentare italiana ha costruito la sua storia; o se il rapporto diretto e virtuoso con i produttori (contadini e allevatori) dal quale non solo Grom, anche Eataly aveva preso l’abbrivio, non venga considerato un impiccio, da certi manager che hanno poco tempo e l’agenda sempre piena.
Probabilmente esiste – non solo nel cibo – un problema di misura, di ricerca del limite, che confligge con la crescita ininterrotta. Ma questo nel grattacielo lo capiscono poco e forse non lo sanno nemmeno. Sono i due ragazzi Martinetti e Grom, sicuramente, che hanno dovuto fare i conti con scale profondamente diverse, quella di partenza e quella di arrivo. Poiché di Unilever, come di tutti quei posti smisurati, non abbiamo contezza precisa, non ci resta che fare il tifo per loro, i due artigiani italiani del cibo, sperando che abbiamo fatto la mossa giusta. Mica per loro. Per il pistacchio