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 2015  ottobre 02 Venerdì calendario

L’industria del tarocco vale 6,5 miliardi. Si copiano vestiti, mobili, scarpe, profumi, borse e nessuno dice nulla. Tutt’al più si paga una piccola multa (da 2.500 a 25mila euro). Eppure se lo Stato sconfiggesse la contraffazione domani mattina si ritroverebbe con 5 miliardi in più in cassa e 105mila posti di lavoro da distribuire, e tanta criminalità in meno

Chi lo dice che oltre ai rossetti e ai ferri da stiro non si possono taroccare anche i pezzi di ricambio dei motori degli aerei? E poi, certo, le scarpe del famoso marchio. Un clan di camorra ne ha riprodotte migliaia di paia. Perfette. Ma soltanto i numeri dispari. Perché negli stampi originali delle calzature trafugati dalla fabbrica mancavano i pari.
Se lo Stato questa sera sconfiggesse la contraffazione domani mattina si ritroverebbe con 5 miliardi in più in cassa e 105mila posti di lavoro da distribuire. Non solo: sfilerebbe alla torta della criminalità organizzata una fetta pari a 6,5 miliardi. Quasi un quarto della manovra finanziaria. Un terzo delle tasse che Renzi ha promesso di tagliare (18 miliardi). Ma nel Paese dei tarocchi – dove spopolano i “negozi” on line da 9 inserzioni farlocche su 10, e dove il 51% dei clienti del falso ha un titolo di scuola media superiore – tutto questo sembra incredibilmente impossibile.
Eppure non serve la bacchetta magica. Basterebbe cambiare la legge che (non) punisce i taroccatori. Una legge varata dal governo e la cui efficacia si sta rivelando preziosa come quella di un colabrodo. Il colpevole si chiama decreto legislativo n°28 del 16 marzo 2015: meglio noto come legge sulla “tenuità del fatto”. Che cos’è?
Tutti i reati con una pena massima non superiore ai 5 anni possono trovare l’applicazione della non punibilità per – appunto – tenuità del fatto. Sarà anche un modo per disintasare le aule giudiziarie (i procedimenti che rientrano nella fattispecie vengono archiviati). Ma è anche la manna dal cielo per l’industria tarocca. «Con questa legge, che pure comprendo nell’impianto, è quasi impossibile punire la contraffazione – lancia l’allarme Mario Catania, presidente della commissione parlamentare anticontraffazione. Chiediamo che venga modificata. La normativa attuale tratta con lo stesso peso e la stessa misura l’immigrato che vende una borsa sulla spiaggia e il grande criminale che movimenta tonnellate di merce».
Repubblica anticipa il contenuto delle cinque relazioni (frutto di un anno di lavoro, con un centinaio di audizioni tra magistrati, forze di polizia e categorie produttive, ndr) e la proposta che la commissione parlamentare presenterà il 5 ottobre a Expo. Obiettivo: la richiesta di introduzione di un doppio binario per i reati riguardanti contraffazione e pirateria. La parola d’ordine è “distinguere”. Perché c’è tenue e tenue. E perché in generale – spiega Catania, già ministro dell’agricoltura con Monti – «la tenuità del fatto si cala come una mannaia sulle norme relative alla contraffazione. Con un effetto ulteriormente penalizzante».
Partiamo dunque dalle pene. In questa fase di indultino soft avere dati ufficiali sulle sorti giudiziarie degli spacciatori del falso – un mare grande tra griffe e marchi della tavola – è impossibile. Ma tra gli addetti ai lavori – in particolare modo i detective di dogane e guardia di finanza – girano stime frustranti. In due casi e mezzo su tre i taroccatori beccati in Italia la fanno quasi franca. Le pene vanno da 6 mesi a 3 anni. Chi le sconta? Pochissimi, se è vero, come indica il trend degli ultimi mesi – dall’entrata in vigore del provvedimento “tenue” – che solo un processo su sei è destinato a non sfarinarsi con l’archiviazione.
Risultato: per combattere la contraffazione depenalizzata si punta più che altro sulle multe. Da 2.500 a 25mila euro. «A volte la multa ha un effetto repressivo più efficace – ragiona Giuseppe Peleggi, direttore dell’Agenzia delle dogane – Ma una cosa è uno che vende due paia di scarpe per strada – e in questo caso, è vero, il suo fascicolo penale rischia di intasare un tribunale – Un’altra cosa è il grosso trafficante». Prendiamo il secondo caso. Quanto pesano 25mila euro di ammenda sugli utili di chi è inserito negli ingranaggi di un mercato la cui “produzione aggiuntiva” (il valore della commercializzazione sul mercato legale dei prodotti contraffatti) è pari a 17,7 miliardi (dati Censis)? È ipotizzabile un effetto solletico? Forse sì. Altra domanda: quanto sono motivati i vigili urbani a appioppare multe ai venditori di falso se il ricavato finisce nelle casse dell’erario statale e non in quelle comunali?
Eppure il contrasto c’è stato e c’è. Dal 2006 al 2013 – rileva l’Istat – le forze di polizia hanno denunciato alle Procure 72mila delitti di “contraffazione e violazione della proprietà intellettuale”. Basta poi dare un’occhiata agli archivi di Iperico (Intellectual property elaborated report of the investigation on counterfeiting), la banca dati sui sequestri sviluppata dal Mise. Mostruosa la mole di merce sottratta ai cartelli del falso: 4 milioni e 365mila pezzi nel solo periodo 2008-2014. La classifica dei prodotti taroccati è guidata da accessori di moda e abbigliamento (1,6 miliardi), seguiti da apparecchiature elettriche, scarpe, occhiali, orologi e gioielli. In fondo, ma con cifre comunque rilevanti, giocattoli, cd-dvd, profumi e cosmetici (267 milioni). Da notare: nelle stime di Iperico non rientrano alimenti e bevande. Settore per il quale il Censis stima un fatturato “nero” di 1,1 miliardo l’anno. «La contraffazione è il business criminale con il miglior rapporto profitto-rischio – aggiunge Catania – È finita l’epoca degli artigiani truffaldini. Adesso combattiamo contro le grandi mafie e le piattaforme digitali». Colossi ai quali il decreto sulla tenuità non sembra avere fatto proprio un torto imperdonabile.