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 2015  settembre 11 Venerdì calendario

L’Alzheimer è contagioso. Almeno così rivela uno studio pubblicato su Nature realizzato da ricercatori dell’University College di Londra che hanno analizzato il cervello di 8 persone morte per la malattia di Creutzfeldt-Jakob, la cui variante è diventata celebre ai tempi della «mucca pazza» e in 6 cadaveri è stata rilevata la presenza di placche di beta-amiloide, la proteina responsabile della morte neuronale e del decadimento cognitivo di chi soffre di Alzheimer. Ma per poter condividere una teoria bisogna fare più ricerca

È possibile che il morbo d’Alzheimer possa esser stato trasmesso ad alcune persone attraverso una particolare procedura medica. Ad azzardare questa ipotesi è stato un gruppo di ricercatori dell’University College di Londra in uno studio pubblicato su «Nature». 
I ricercatori hanno analizzato il cervello di 8 persone morte per la malattia di Creutzfeldt-Jakob, la cui variante è diventata celebre ai tempi della «mucca pazza». In passato, tutti i pazienti erano stati trattati con l’ormone della crescita estratto dall’ipofisi, una ghiandola endocrina del cervello, di persone decedute e contaminato con i prioni, cioè le proteine responsabili della malattia di Creutzfeldt-Jakob. Si tratta di una procedura che è stata molto comune in Gran Bretagna fra il 1958 e il 1985. 
Ebbene, in 6 degli 8 cadaveri sottoposti all’autopsia è stata rilevata la presenza di placche di beta-amiloide, la proteina responsabile della morte neuronale e del decadimento cognitivo di chi soffre di Alzheimer. Tuttavia, non sono stati rilevati altri segni caratteristici della malattia, come la presenza della proteina «tau». Ma, secondo i ricercatori, il quadro completo si sarebbe potuto sviluppare se i pazienti fossero vissuti più a lungo. La parte più sconcertante dello studio è che i 6 individui avevano un’età compresa tra i 36 e i 51 anni. 
Sappiamo che l’Alzheimer raramente colpisce persone così giovani. Per di più nessun paziente aveva le mutazioni genetiche associate alla patologia neurodegenerativa che potrebbero spiegare uno sviluppo così precoce. L’ipotesi è che le ipofisi dalle quali era stato estratto l’ormone della crescita, con cui sono stati trattati i pazienti, fossero state contaminate anche con tracce di proteina beta-amiloide e che queste possano aver prodotto nel cervello le placche tipiche dell’Alzheimer.
«Sono necessarie ulteriori ricerche – precisano i ricercatori – per comprendere meglio il meccanismo coinvolto: sembra probabile che, così come i prioni, la ghiandola pituitaria possa contenere anche i semi delle beta-amiloidi che hanno causato la patologia osservata».
 
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Per gli scienziati è un processo degenerativo che colpisce progressivamente le cellule del cervello, provocando il declino delle funzioni cognitive e il deterioramento della persona. Per i malati è invece un terribile mostro che divora pezzo dopo pezzo ricordi, sogni, speranze e sentimenti, fino a trasformare il corpo in un involucro vuoto. 
È l’Alzheimer, la forma più comune di demenza, per cui oggi non esiste alcuna cura. Ed è proprio a settembre che si celebra il quarto mese mondiale dedicato all’ invalidante malattia. «Si stima che nel mondo siano circa 47 milioni le persone colpite da demenza, il 60 per cento delle quali è affetta appunto dall’Alzheimer», riferisce Gabriella Salvini Porro, presidente della Federazione Alzheimer Italia. «In Italia, invece, la demenza riguarda 1 milione e 300mila persone, di queste 600-700 mila hanno l’Alzheimer», aggiunge. Se questi numeri non bastassero a considerare questa malattia come un’emergenza di sanità pubblica, certamente ci riusciranno le previsioni dei prossimi 35 anni. «Si stima che nel 2050 le persone affette da demenza in Italia raggiungeranno quota 2 milioni e 300mila», sottolinea Salvini Porro. «Nonostante la portata dell’Alzheimer sia enorme – continua – si fa ancora troppo poco, specie nel nostro Paese». Se infatti sulla carta esiste un Piano Nazionale Demenze, cui ricade appunto l’Alzheimer, nella pratica nulla è cambiato.
«Non solo mancano i finanziamenti per la ricerca e l’assistenza, ma nessun progresso è stato fatto per supportare i malati e le loro famiglie», dice Salvini Porro. L’Alzheimer non è infatti solo un mostro che divora il malato, ma un male oscuro che travolge anche i loro cari, troppo spesso lasciati da soli a gestire situazioni molto difficili. Offrire adeguata assistenza ai malati, cercando di migliorarne il più possibile la qualità della vita, è infatti un lavoro a tempo pieno. «E mentre alcune regioni italiane offrono supporto, in molte altre non se ne parla neppure», conferma Salvini Porro. 
Eppure i numeri impongono di prendere di petto questa emergenza. «L’Italia, così come hanno già fatto altri Paesi, dovrebbe iniziare a premunirsi. Non solo stanziando denaro – conclude Salvini Porro – ma informando e stimolando la sensibilità verso i malati costretti a convivere con una patologia che devasta la mente».
 
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«L’ipotesi che l’Alzheimer possa essere trasmessa attraverso procedure mediche è interessante, ma è azzardato pensare di costruire una teoria simile basandosi sullo studio di soli 8 cadaveri». È scettico Paolo Maria Rossini, direttore dell’Istituto di Neurologia dell’Università Cattolica – Policlinico Agostino Gemelli di Roma, convinto che l’approccio allo studio di questa patologia neurodegenerativa debba essere più «complesso e aperto».
Professore, cosa c’è che non quadra in questo studio?
«Credo che se alcune procedure mediche fossero responsabili della trasmissione dell’Alzheimer dovremmo aver registrato un picco significativo dei casi localizzati in alcune specifiche aree. Ad esempio, se fosse proprio il trattamento con l’ormone della crescita estratto dall’ipofisi di persone decedute e contaminato con i prioni la vera causa dell’Alzheimer, dovrebbero esserci dati che segnalino un iniziale aumento dei casi e poi una sostanziale riduzione una volta sospesa tale procedura. Eppure, non è così».
Come spiega l’attuale incremento dei malati d’Alzheimer?
«Negli ultimi 30-40 anni il numero dei casi di Alzheimer è aumentato perché ci sono più anziani. Con l’allungamento dell’aspettativa di vita, aumentano anche le malattie legate all’invecchiamento. L’ Alzheimer è una di queste. Infatti, pur essendo aumentate le diagnosi, l’incidenza per le fasce d’età è sempre la stessa».
È una coincidenza aver trovato i segni dell’Alzheimer in 6 degli 8 cadaveri coinvolti nello studio?
«I segni dell’Alzheimer che i ricercatori avrebbero trovato sono le cosiddette placche di beta-amiloide. Si tratta di un peptide che si accumula in tutti i cervelli che invecchiano e non solo in quello dei pazienti con l’Alzheimer. C’è poi una soglia di accumulo “cattiva”, ma nella norma, ed “eccessiva”, cioè compatibile con l’Alzheimer. Ora l’aver trovato depositi di beta-amiloide nel cervello di 6 cadaveri non conferma l’ipotesi azzardata che l’Alzheimer sia stato trasmesso a seguito della stessa una procedura medica che ha causato la malattia di Creutzfeldt-Jakob. Poi si tratta di malattie ben diverse, sia per la tipologia di esordio che per le aree cerebrali interessate».
Allora in quale direzione dovrebbe andare la ricerca?
«Bisognerebbe lavorare a mente aperta, evitare di concentrare l’attenzione su una sola potenziale causa della malattia. Quello che infatti oggi abbiamo capito sull’Alzheimer è che non c’è un singolo responsabile. Oltre alle placche di beta-amiloide, sappiamo che è coinvolta anche la proteina tau e i radicali ossidanti. Non solo. Sappiamo che un ruolo importante lo possono avere gli stili di vita, come traumi cranici ripetuti o troppe anestesie generali. E che esiste anche una predisposizione genetica, specie nei casi di esordio precoce. Analizzando queste concause insieme, si può ipotizzare in futuro di mettere a punto trattamenti efficaci da somministrare a pazienti a rischio prima che la malattia si sviluppi completamente».