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 2015  settembre 11 Venerdì calendario

L’Arabia Saudita censura Papa Francesco. Il Paese wahabita vieta il numero di National Geographic con il Pontefice in coperina e il racconto della rivoluzione di Papa Bergoglio in Vaticano

Che l’Arabia Saudita non sia la patria del diritto è cosa nota. Non c’è bisogno di una lente d’ingrandimento per vedere come ogni giorno l’intolleranza del regno wahabita sia esercitata con estremo zelo, dalla religione alle donne e ai gay. La pervicacia con cui si applicano rimbalza quasi quotidianamente sui media occidentali. Come è accaduto in questi giorni, quando le autorità saudite hanno messo al bando la rivista di agosto della versione araba del National Geographic. Il motivo? I vertici del paese islamico si sarebbero offesi per la presenza in copertina di Papa Francesco.
Naturalmente non vi sono spiegazioni ufficiali per la censura anche se i responsabili del magazine, in un breve messaggio su twitter, hanno parlato di edizione «bannata» per ragioni di «carattere culturale». Ma più dell’immagine del Pontefice, a irritare i vertici sauditi sarebbe stato il titolo in prima pagina («Papa Francesco riforma il Vaticano»), tanto che il direttore della rivista in lingua araba, Alsaad Omar al-Menhaly, è stato costretto a scusarsi con i lettori. Il fatto che il Pontefice starebbe promuovendo una «rivoluzione silenziosa», come scrive il National Geographic, avrebbe messo in allarme e infastidito il regime saudita, «da sempre ossessionato da rivolte o proteste di piazza – come spiega l’agenzia cattolica AsiaNews -. Per le autorità religiose il concetto di religione “fluida” e disponibile al “cambiamento” per adattarsi alla modernità (ciò che fa il pontefice nella Chiesa cattolica secondo la rivista) è proprio quanto essi si ostinano a combattere, mantendendo una versione pura e immutabile dell’islam».
Non solo, il continuo richiamo del Papa alla politica di accoglienza e sostegno dei profughi in fuga dalle guerre, in particolar modo i siriani, si scontra apertamente con le scelte del regno che invece ha chiuso le frontiere proprio ai fratelli musulmani.
D’altronde, in Arabia Saudita i culti non musulmani sono proibiti per legge. Convertirsi dall’islam a un’altra religione o rinunciare all’islam è considerato apostasia ed è un reato capitale, che può essere punito anche con la pena di morte. Di conseguenza, è vietata qualsiasi manifestazione pubblica della fede cristiana e la polizia religiosa saudita è incaricata proprio di reprimere ogni celebrazione, anche clandestina. La Santa Sede e Riad non hanno relazioni diplomatiche e ai sacerdoti cattolici è negato perfino l’ingresso nel Paese. Ma questo vale per tutte le fedi che non siano quella islamica: niente missionari, niente chiese o luoghi di culto e niente simboli religiosi da indossare, neppure per i turisti.
«La libertà religiosa non esiste», scrive il Dipartimento di Stato americano nel rapporto 1997 sui diritti umani in Arabia Saudita. «L’islam è la religione ufficiale e tutti i cittadini devono essere musulmani. Il governo proibisce la pratica pubblica di altre religioni».
Ma l’intolleranza non si limita alla religione. È illegale infatti tutta l’attività sessuale fuori dal matrimonio, etero naturalmente. E la punizione per l’omosessualità, il travestimento da donna o il coinvolgimento in una presunta comunità gay, varia dall’imprigionamento, alla deportazione (per gli stranieri), alle frustate fino alla pena di morte.
Le donne saudite, poi, subiscono forti discriminazioni, in famiglia, nell’educazione, il lavoro e nel sistema giudiziario, dove la loro testimonianza vale meno di quella di un uomo.