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 2015  settembre 11 Venerdì calendario

United 93, il museo degli eroi dimenticati. A quei 37 passeggeri del quarto volo dell’11 settembre, quelli che si ribellarono ai terroristi di Al Qaeda, facendo schiantare l’aereo a 906 chilometri orari, in Pennsylvannia è dedicato un memoriale. Di loro non c’è più traccia, sono stati recuperati millecinquecento frammenti. Ma a Shanksville restano le loro voci, le loro urla e le telefonate ai loro cari. Se le volete ascoltare

 “Benvenuti a bordo del volo United 93. È il comandante Dahl che vi parla. Ci scusiamo per il ritardo, il tempo sulla rotta è perfetto e la durata sarà di 6 ore e 12 minuti. Ora rilassatevi e godetevi il viaggio». Erano le 8 e 42 minuti dell’11 settembre 2001 all’aeroporto internazionale di Newark, e il comandante Dahl si era sbagliato: il volo sarebbe durato soltanto un’ora e ventuno minuti, fino alle 10,03 e 11 secondi quando il Boeing 757 della United in rotta per San Francisco si sarebbe sbriciolato colpendo il terreno di una vecchia miniera di carbone abbandonata in Pennsylvania alla velocità di 906 chilometri ora. Il resto umano più grosso recuperato dal cratere sarebbe stato un pezzo di spina dorsale lungo quindici centimetri.
Su quel Boeing 757 ora possiamo imbarcarci tutti, se ne abbiamo il coraggio. Basta raggiungere il paese di Shanksville tra Filadelfia e Pittsburgh, l’abitato più vicino alla collina contro la quale l’aereo si disintegrò, visitare il memoriale aperto ieri e costruito con due spoglie, cimiteriali pareti di cemento e ascoltare le voci dei piloti, dei terroristi assassini, dei passeggeri, delle assistenti di cabina. Perché dei grandi aerei dirottati quel giorno smagliante di settembre di 14 anni or sono, questo, il “Quarto Volo”, il più misterioso, il solo che non raggiunse l’obbiettivo designato da Al Qaeda, è quello che ha lasciato più tracce e registrazioni di quanto avvenne nei 30 minuti finali del suo tuffo verso l’abisso.
A 11 mila metri di quota, sulle verticale di Cleveland nell’Ohio, il comandante Dahl riceve una comunicazione del centro di controllo della United: «Qui Ed. Attenzione a possibili tentativi di irruzione nella cabina di pilotaggio...». «Per favore ripeti Ed...non si è capito....». Ma prima che Ed, il “dispatcher” della compagna possa ripetere, si sentono la voce del comandante gridare “Mayday! Mayday!” il segnale universale di pericolo grave e poi quella del secondo pilota: «che cosa fate qui, uscite, uscite subito, fuori, fuori...». Sono le 9 e 28. La voce dei due ufficiali non si sentirà più. Al loro posto, parla Ziad Jarrah, l’uomo che ha impugnato i comandi dopo avere ucciso i piloti e probabilmente un’assistente di volo che aveva cercato di bloccarli. «Attenzione – dice il libanese che parla bene l’inglese – passeggeri, vi parla il comandante c’è una bomba a bordo. State seduti e state calmi».
Il grande aereo, fortunatamente semivuoto con appena 37 passeggeri a bordo invece dei consueti cento di quel volo feriale, compie una completa inversione di rotta e punta il muso in direzione di Washington, che dista meno di un’ora di volo e sale di quota fino a tredicimila metri. Il registratore delle voci nella cabina raccoglie il suono di una lotta fra una donna, certamente un’assistente di volo e un terrorista. Si sente un grido, un tonfo e una voce: «L’ho finita, tutto a posto». Chiusa nella toilette, un’altra assistente riesce a chiamare un’amica con lo Airphone, i telefoni pubblici di bordo e l’amica la informa che due aerei si sono schiantati contro le Torri Gemelle di Manhattan. «Ti voglio bene, mi mancherai....», registra la chiamata.
Tra i passeggeri tutti hanno capito. Tim Burnett parla con la moglie a Chicago che gli conferma la notizia. «Abbraccia i bambini...». Trentacinque chiamate raggiungeranno la terra dall’aereo e due via cellulare, a quota più bassa, dove c’è campo. Jeremy Glick, un altro passeggero, telefona alla moglie e resterà collegato con lei fino alla fine, la propria morte minuto per minuto. «Stiamo votando cosa fare e abbiamo deciso di andare all’assalto della cabina di pilotaggio». “Let’s roll!” andiamo e quello sarà il grido di battaglia che per sempre resterà scolpito su questa tragedia.
Sono le 9,57, ora zero meno sedici minuti. Il gruppo dei volontari si lancia contro la porta della cabina, usando il carrello delle bevande come ariete. Jarrah, il pilota, sente tonfi e grida, tenta acrobazie violente, per fermarli e farli cadere. Oscilla le ali del grande aereo, compie brusche virate, lo porta a rollare violentemente, come un delfino nel mare, ma i tonfi continuano. Washington, l’obbiettivo, probabilmente la cupola bianca del Congresso è vicina, a 950 km ora di velocità, quindici minuti con i due jet GE a gola aperta.
Sono le 10,07 e trenta secondi. Il controllo di Cleveland e il centro traffico aereo di Herndon in Virginia sentono tutto e non posso fare nulla. Il pilota vira violentemente e scivola d’ala, sbandando oltre i limiti. Il grande aereo si rovescia e vola di schiena, capovolto, negli ultimi secondi della propria esistenza. Si sente ancora un “I love you so much” in un’ultima conversazione telefonica di una donna, CeeCee Lyles. E alle 10.13, le 100 tonnellate di alluminio e fibra di carbonio del Boeing 757, i 35 mila litri di kerosene rimasti, i corpi di 37 passeggeri si polverizzano in un urto che i sismografi registreranno, nella terra delle vecchie miniere di carbone abbandonate e coperte da un sudario leggero di erba.
Uno dei due motori sarà trovato a due chilometri di distanza dal cratere. Un altro dovrà essere estratto dal suolo dove era sprofondato per sette metri. Degli uomini e delle donne a bordo, saranno recuperati mille e cinquecento frammenti, identificati dopo anni di studio. Restano le loro voci forti e chiare, in quel mausoleo, se le volete ascoltare.