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 2015  settembre 11 Venerdì calendario

La clamorosa scoperta dell’Homo Naledi. Era alto 1 metro e mezzo, pesava 45 chili, aveva un cervello grande come un’arancia, gambe lunghe e arcate sopracciliari, mangiava carne e viveva nella savana sudafricana probabilmente 2,5 milioni di anni fa. I resti, oltre 1.500 ossa appartenenti ad almeno 15 individui, sono stati ritrovati nella grotta Rising Star ad una quarantina di chilometri da Johannesburg, si pensa che si tratti di una tomba...

Quindici antenati, anziani, donne e bambini, sigillati in una caverna del Sud Africa, come in una perfetta capsula temporale, riemergono da un oblio durato 2 milioni e mezzo di anni, forse 3, e – sostiene il capo ricercatore Lee Berger – potrebbero riscrivere l’idea che abbiamo delle nostre origini [Gabriele Beccaria, La Stampa].

L’evento annunciato sulla rivista eLife è il più grande ritrovamento di fossili mai avvenuto in Africa. E il più enigmatico: che cosa ci facevano 15 creature stipate a 40 metri sottoterra, in una grotta a cui si accede dopo 20 minuti di marcia, a volte strisciando, e dove l’entrata è un buco di una ventina di centimetri? [Gabriele Beccaria, La Stampa].

Marco Cattaneo: «La scoperta è di quelle da togliere il fiato, per chi è abituato a navigare nella comunità dei paleoantropologi. Capaci di dibattere fino allo sfinimento intorno a una falange o a un microscopico pezzetto di mandibola, si sono trovati sotto il naso un tesoro di valore inestimabile. E tutto in una volta» [Marco Cattaneo, la Repubblica].

Per essere più precisi, le ossa ritrovate sono 1.550 [Giovanni Caprara, Corriere della Sera].

È stata ipotizzata così una nuova specie di ominidi. Specie battezzata Homo naledi [Gabriele Beccaria, La Stampa].

Naledi, in lingua Sotho “stella” [Silvia Bencivelli, la Repubblica].

La storia iniziava due anni fa in una grotta a una quarantina di chilometri da Johannesburg. La zona, nota come una delle culle dell’umanità, era già famosa per altri ritrovamenti. La grotta “Rising Star” aveva un apertura piccola e angusta nella quale Lee R. Berger dell’Università di Witwatersrand a Johannesburg entrava ritrovandosi in una caverna. Davanti agli occhi aveva una moltitudine di resti, un tesoro dal quale un gruppo di oltre cinquanta ricercatori ricostruiva l’identità di individui molto diversi: dal neonato all’anziano con maschi e femmine, inclusi cinque bambini [Giovanni Caprara, Corriere della Sera].

Il lavoro di scavo è stato compiuto da sei donne, scelte non solo per la bravura, ma per la corporatura. Dovevano essere abbastanza piccole e magre da muoversi in scioltezza nella grotta [Gabriele Beccaria, La Stampa].

«La scoperta dei resti – ha raccontato il capo della spedizione Berger – è avvenuta trovando una fessura all’interno di una serie di grotte. Dopo accurate analisi, abbiamo capito che solo donne molto longilinee si sarebbero potute addentrare. E così ho pubblicato un bando internazionale. Con il finanziamento del National Geographic abbiamo reclutato sei giovani ricercatrici che sono entrate dentro l’anfratto». Le scienziate hanno posizionato un cavo ottico lungo 3,5 km e da quel momento in poi le operazioni di scavo sono state coordinate insieme con un altro gruppo di scienziati rimasto in superficie [Lorenzo Simoncelli, La Stampa].

Il gruppo di ricercatori è composto da scienziati della University of Witwatersrand di Johannesburg, dalla National Geographic Society e dal Dipartimento per la Scienza del Sudafrica. Tra loro anche l’italiano Damiano Marchi, dell’università di Pisa [Silvia Bencivelli, la Repubblica].

Ora le ossa sono conservate in una camera blindata della Witwatersrand University, a Johannesburg [Gabriele Beccaria, La Stampa].

Silvia Bencivelli: «La scoperta è importante per numerose ragioni. Intanto è un ritrovamento particolarmente ricco: non la solita mezza mandibola da cui dedurre la struttura di un intero scheletro, ma un sacco di ossa, tante e diverse. Praticamente è già “il membro fossile della nostra linea evolutiva che conosciamo meglio”, ha spiegato Berger. Questo significa che è già possibile provare a descrivere come fosse fatto» [Silvia Bencivelli, la Repubblica].

Homo naledi era alto circa 150 centimetri, pesava tra i 40 e i 55 chilogrammi, aveva bacino e spalle molto piccoli [Giovanni Caprara, Corriere della Sera].

Il cervello era grande come un’arancia, in media di 500 grammi, contro quello nostro tra 1300 e 1400 grammi. La testa però aveva caratteristiche vicine alle nostre nella conformazione, come le arcate sopracciliari [Stefano Rizzato, La Stampa].

Come testimoniano le dita curve delle sue mani, sapeva arrampicarsi, e le lunghe gambe dimostrano che sapeva anche camminare e correre [Emanuele Perugini, Il Messaggero].

Aveva la parte superiore del corpo simile a quella dell’Australopiteco e la parte inferiore simile alla nostra. Molto simile, soprattutto i piedi. Ma l’Australopiteco è comparso sulla Terra circa quattro milioni di anni fa, mentre noi quei piedi abbiamo cominciato a muoverli solo duecentomila anni fa [Silvia Bencivelli, la Repubblica].

Ma quando è vissuto Homo naledi? I sedimenti della grotta in cui è stato trovato Homo naledi non sono stratificati, e questo rende complessa la datazione dei resti. Soprattutto perché la nuova specie presenta caratteri sia primitivi, a cominciare dalle dimensioni del cervello, sia caratteri moderni, soprattutto negli arti inferiori. Così al momento si possono fare solo ipotesi. La più accreditata è che si collochi tra 2,5 e 2 milioni di ani fa, tra le prime specie del genere Homo [Marco Cattaneo, la Repubblica].

Ma Homo naledi potrebbe anche risalire a 3-4 milioni di anni fa, scalzando Lucy, l’australopiteco scoperto negli anni settanta in Etiopia da Donald Johanson, dalla lista dei nostri diretti antenati. Oppure potrebbe essere molto più recente, degli ultimi 500.000 anni, e avere convissuto con la nostra specie fino a poco tempo fa. Un po’ come i Neanderthal e l’uomo di Flores, con tutte le differenze del caso [Marco Cattaneo, la Repubblica].

Se – dichiara Berger – questo Homo è da considerarsi un «ponte» tra i primati in grado di spostarsi su due zampe (o quasi gambe) e i primi esemplari di umani, l’epoca appartiene a una fase-chiave della nostra ancora controversa comparsa ed evoluzione [Gabriele Beccaria, La Stampa].

Ma c’è un interrogativo forse ancora più interessante. Come ci sono arrivati fin lì quei resti? La grotta dove sono stati scoperti è praticamente inaccessibile, e forse in passato c’era un’altra entrata, che finora i ricercatori non hanno individuato. Di sicuro non sono stati lasciati da carnivori, perché le ossa non recano segni di denti. E probabilmente non sono stati portati dall’acqua, che avrebbe depositato anche altri sedimenti [Marco Cattaneo, la Repubblica].

Un’ipotesi è che siano rimasti intrappolati, da un crollo o da un’alluvione. Un’altra - la più intrigante - è che siano stati portati là intenzionalmente, al lume di torce: l’uso del fuoco spiegherebbe anche denti straordinariamente piccoli, come chi è abituato a nutrirsi di cibo cotto [Maurizio Stefanini, Libero].

Maurizio Stefanini: «Potrebbe essere dunque sia il più antico esempio di uso del fuoco, sia il più antico cimitero dell’umanità. Sotto il primo punto di vista, alcuni indizi facevano finora risalire la “scoperta” del fuoco a 1,5 milioni di anni fa: ma la sicurezza c’è solo a partire di 230.000 anni fa, e il controllo del fuoco diventa generalizzato 125.000 anni fa» [Maurizio Stefanini, Libero].

Gianluca Grossi: «Il SudAfrica. Ecco l’altra vera notizia. Fino a pochi anni fa si pensava che la culla evolutiva dell’uomo fosse riconducibile alla cosiddetta Rift Valley, a cavallo fra Kenya e Tanzania. È qui che trovarono Lucy, l’Australopithecus afarensis, nonché il più antico antenato dei gorilla, il Chororapithecus abyssinicus. Con le ultime scoperte, invece, il baricentro evolutivo si sposta verso Sud, e il SudAfrica pare in pole position nella classifica delle nazioni che ci dettero i natali. È di pochi mesi fa il rinvenimento nelle grotte di Sterkfontein di un’altra specie battezzata Australopithecus prometheus. Certo, era molto più antica dell’ultima ritrovata, ma è curioso notare che probabilmente visse in contemporanea a Lucy» [Gianluca Grossi, il Giornale].

Comunque non tutti condividono l’idea che i quindici di Rising Star siano una nuova specie. Tra gli scettici c’è Ian Tattersall, paleontologo dell’American Museum of Natural History di New York, che già in passato ha chiesto ai colleghi più cautela nel battezzare nuove specie. Anche lui, però, ammette che la scoperta è importante: «si tratta di un incredibile assemblaggio di fossili che terrà i paleoantropologi occupati per un bel po’ di tempo» [Silvia Bencivelli, la Repubblica].

Proprio per quella strana combinazione di tratti moderni e antichi Chris Stringer, ha avanzato un’ipotesi provocatoria: è se l’Homo Naledi avesse solo 100.000 anni? Non sarebbe dunque il più antico, ma semplicemente un ramo evoluto a parte e rimasto isolato. Un po’ come l’ormai famoso Homo Floresiensis, l’“hobbit” ritrovato nel 2003 e che sarebbe vissuto nell’isola indonesiana di Flores fino a appena 13,000 anni fa [Maurizio Stefanini, Libero].

Edorado Boncinelli: «Intorno a 3 milioni di anni fa in Africa ne devono essere successe di tutti i colori. In una sorta di calderone biologico la natura sovraeccitata ha dato vita a una manciata abbondante di ominidi dai quali noi deriviamo! Lo stupefacente è che siamo in grado di rendercene conto» [Edoardo Boncinelli, Corriere della Sera].