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 2015  settembre 11 Venerdì calendario

A proposito dell’omicidio di Marta Russo, di Scattone e di una sentenza irrisolta. Mancano troppe cose nella pessima inchiesta che, sotto l’enorme pressione dell’opinione pubblica, la Procura di Roma mise in piedi allora, nel 1997. E, come capita sovente in Italia, dove non arriva la giustizia arrivano l’ostracismo e la disumanizzazione del reo

La finestra di Marta, ormai, quasi si confonde tra le altre, anonime, del primo piano, sul retro di Giurisprudenza. La vecchia serranda di legno marrone abbassata a metà, le doghe ingrigite della tenda, il condizionatore spostato sotto il davanzale rispetto alle foto di diciott’anni fa. Da quella finestra, alle 11 e 42 del 9 maggio 1997, partì il proiettile calibro 22 che stroncò la vita di Marta Russo, a quindici metri di distanza, lì in mezzo al vialetto, dove è stata piantata una magnolia dai genitori. E a quella finestra è rimasta incatenata la vita del colpevole, Giovanni Scattone, ben oltre la condanna definitiva a 5 anni e 4 mesi. Nell’aula 6 del dipartimento di Filosofia del diritto, da dove Scattone, secondo la sentenza, ha sparato, ora ci tengono i seminari. Chiedo: non fa impressione? «Ma lei quanti crede che lo sappiano?», mi risponde sorridendo Andrea, classe 1988, quarta elementare diciott’anni fa, sbucando dalla porta del collettivo studentesco: «Lo sappiamo io e pochi altri».
Delitto e processo sono rimasti imprigionati come Scattone, appesi a quella finestra dell’orrore, dentro una bolla di non detto che a quel tempo la gente ha tuttavia percepito, è diventata narrazione popolare ed è stata la dannazione successiva dell’ex assistente della Sapienza, la sua pena accessoria e impronunciabile che ancora oggi lo costringe a rinunciare a una cattedra. Andrea ha appena due anni meno di Scattone allora, ma pare un ragazzo, come molti di una generazione consegnata dalla precarietà a un’infinita adolescenza. Fisico da rugby, barbetta, garantismo tenace: «L’hanno condannato per omicidio colposo, no?, mica è un pedofilo. Mica gli hanno dato interdizioni. Io dico, basta, rispettiamo le sentenze: perché non dovrebbe insegnare?».
Ma il punto sta proprio là, per molti: nel percorso della sentenza e nel non detto. Per capirlo occorre un esempio astratto: se il professor X, né ubriaco né drogato, ammazza un passante con la macchina in un malaugurato incidente stradale e viene condannato per omicidio colposo, a quanti salterebbe in mente di impedirgli poi di tornare in cattedra? E allora dov’è la differenza con la condanna per omicidio colposo inflitta a Scattone? Proviamo a dirlo senza girarci attorno, scusandoci in premessa perché le sentenze, come ci ricorda Andrea, si rispettano.
A quel colpo partito per sbaglio, maneggiando incautamente una pistola poi mai più ritrovata, senza immaginare che fosse carica, col braccio teso fuori dal davanzale della maledetta finestra, beh, non ci hanno mai creduto in tanti. Men che meno la pubblica accusa che, al tempo, ha insistito a chiedere 18 anni per omicidio volontario, costruendo un’ipotesi di scuola. Si chiama dolo eventuale: Scattone e il suo amico inseparabile, Salvatore Ferraro, secondo alcuni vera mente della coppia, sedotti da Nietzsche e dal superomismo decidono per gioco, sfregio o chissà quale bizza della mente l’azzardo di quello sparo tra la folla di studenti che passa sotto la finestra, ben consapevoli di poter colpire qualcuno e accettando l’evento (da qui il dolo). È una tesi sostenibile? Forse sì, forse no, ma è l’unica, in totale assenza di qualunque altro movente. Mancano troppe cose nella pessima inchiesta che, sotto l’enorme pressione dell’opinione pubblica, la Procura di Roma mette in piedi allora.
I testi sono tutti alquanto ballerini e vengono sollecitati a parlare con metodi non sempre amichevoli (famoso resta il video-choc di un interrogatorio dell’accusatrice chiave, Gabriella Alletto). Le perizie sono così contrastanti da lasciare aperta l’ipotesi alternativa di un colpo partito da un’altra finestra, in un bagno dell’istituto di Statistica, un piano sotto Giurisprudenza, e sotto Scattone e Ferraro (contro il quale, giova ricordarlo, resterà in piedi solo il favoreggiamento). Ciò nonostante, certo, si potrebbero condannare Scattone e Ferraro per l’omicidio odioso di una ragazzina che tutti vediamo figlia nostra. Oppure assolverli, perché mancano prove sicure. I giudici, che sono pur sempre umani, non se la sentono di prendere nessuna delle due strade più estreme e imboccano il vicolo stretto della condanna «dimezzata», con la tesi assai faticosa di uno sparo per errore. In fondo, una soluzione all’italiana che porta con sé italianissimi paradossi.
Comprensibilmente la famiglia di Marta, sentendosi risarcita solo in piccola parte, continua a stare addosso al colpevole, anno dopo anno, chiedendone almeno contrizione e pentimento: ma Scattone continua a proclamarsi innocente, dunque, non può chiedere perdono. Come capita sovente in Italia, dove non arriva la giustizia arrivano l’ostracismo e la disumanizzazione del reo. La logica di molti genitori in queste ore («non voglio che un assassino faccia lezione a mio figlio») scavalca del tutto la sentenza e torna a pescare in quell’abisso di non detto dove guardiamo smarriti. L’idea stessa della riabilitazione implica un’etichetta che Scattone rifiuta. È un perfetto rompicapo etico e giudiziario. Nel quale, tuttavia, non bisogna dimenticare le vere vittime, i familiari di Marta, unici detentori di un diritto, per così dire, all’eterno rancore. Noi possiamo solo sperare che trovino pace. E, per quanti ci riescono, provare a restituire un’ipotesi di umanità anche a chi (forse) l’umanità se l’è negata un giorno giocando a fare Dio affacciato alla finestra.