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 2015  settembre 10 Giovedì calendario

Laurie che ricorda Lou: «Il suo cuore ha smesso di battere. Non aveva paura. Ero riuscita a camminare con lui fino alla fine del mondo. La vita – così bella e spettacolare – non può dare qualcosa più di questo». Così il film della Anderson, moglie di Reed, commuove e incanta Venezia

Laurie in memoria di Lou: “Il suo cuore ha smesso di battere. Non aveva paura. Ero riuscita a camminare con lui fino alla fine del mondo. La vita – così bella, dolorosa e spettacolare – non può dare qualcosa più di questo”. Lou in memoria di ciò che fugge via: “Avere indietro il tempo, ecco cos’è l’amore/ riavere il tempo sì, ecco cos’è l’amore/ Il mio tempo è il tuo tempo quando sei innamorato/ e il tempo è ciò di cui non hai mai abbastanza/ non puoi vederlo o trattenerlo, esattamente come l’amore”. Da “moglie innamorata e amica eterna”, Laurie Anderson ha realizzato un film per fissare l’eternità di un incontro, lo scorrere delle stagioni, i fiocchi di neve sul parabrezza, i falchi pellegrini in volo, lo sguardo del proprio cane, il cuore della gente incontrata sul cammino intento a pulsare, insegnare, stupire, anche dopo la morte.
Archiviati giorni di narrazioni festivaliere più o meno cerebrali, molto presto di mattina, in una Venezia estiva, ecco arrivare in concorso l’inverno di Laurie. Il suo dolore. La sua lezione per resistere a un mondo che cambia al di là di ogni nostro illusorio desiderio. Siamo niente: “Credevo di essere così più intelligente degli altri e mi sbagliavo”, ma possiamo imparare. Siamo polvere, come quella che nel West Village riempì le strade dopo l’11 settembre del 2001: “Per giorni e giorni passarono camion carichi di detriti e decisi di distanziarmi il più possibile da New York”, ma prima di tornare a esserlo definitivamente, possiamo provare ad alzarla ancora viaggiando. A truffare le scadenze andando altrove. A percorrere senza punti cardinali, mappe o indirizzi certi le strade della conoscenza, della dolcezza e dell’ignoto. “Non so quello che cerco” ha sempre detto di sé e della sua ricerca l’ex scultrice poi diventata tanto altro, Laurie Anderson. Ma nella declamata inconsapevolezza, osservando Heart of a dog (atteso dagli appuntamenti di Toronto e di New York) si intuisce che Anderson ha capito molte cose della vita e di come separarsi da chi avremmo voluto avere per sempre al nostro fianco.
In 75 minuti, meno del doppio della durata di alcuni film in competizione (Il Jfk israeliano di Gitai periplo sull’ultimo giorno di vita di Rabin, dura ad esempio più del doppio), Anderson riesce a emozionare lambendo il rischio del ridicolo e superandolo di slancio con la sincerità di un racconto ‘pantista’ in cui il senso profondo delle cose confina con la quotidianità. Gli odori della sua città, l’influenza del terrorismo nella limitazione delle libertà individuali, lo sguardo del suo cane, Lolabelle, così umano da volersi divertire con i passatempi di chi “cammina eretto”: suonare il piano, comunicare, plasmare opere d’arte con il calco della zampa.
E poi il deperimento fisico, la spiritualità, i vicini di casa, le possibilità della mente, i monaci tibetani, gli artisti, la musica che dopo aver visto Janis Joplin e in attesa di osservare dal vivo Vasco Rossi sui titoli di coda della Mostra numero 72, dettano il ritmo di un inatteso 9 di settembre con i sentimenti orientati a tutta velocità in direzione della nostalgia. Cos’è Heart of a dog – applauditissimo ieri mattina da un pubblico commosso e nient’affatto sorpreso di ritrovare in gara un titolo che è in bilico tra il documentario, il diario intimo e la videoinstallazione da Biennale – se non una guida per riconoscere, come in un vecchio film di Dito Montiel, i nostri santi e i nostri santini? Nella riflessione sui lutti della propria mai piana esistenza, Laurie Anderson si spinge molto in là.
Sempre sul punto di affogare e sempre pronta a riemergere, perché guidata da un istinto di sopravvivenza che resiste al trapasso ingannandolo, giocando con la memoria, cambiando repentinamente quadro prima che il quadro stesso possa ingabbiarci nelle nostre malinconie. Qui e là, tra una canzone, una poesia e una riflessione, più in là dei panorami che proiettano sullo schermo della Sala Grande cieli, silos all’orizzonte, madri perdute troppo in fretta, vecchi amici come Julian Schnabel, punti di riferimento diseguali scelti tra Foster Wallace, Wittgenstein e Kierkegaard, Laurie distilla l’unico antidoto possibile.
Non bisogna restare immobili, suggerisce. Non bisogna fermarsi all’apparenza, insinua. C’è altro e altro, va scoperto a costo di ferirsi, di commuoversi, di piangere. “Lunga vita alla bellezza che scende, attraversa e si impadronisce di tutti noi”. Lou Reed, vero destinatario del messaggio in bottiglia, guarda il mondo da una spiaggia. C’è qualche onda appena. Non si può temere il vento. Se soffia la tempesta, passerà.