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 2015  settembre 10 Giovedì calendario

De Palma, autoritratto di un regista d’avanguardia. In un documentario il grande regista si racconta da quando spiava il papà che tradiva la mamma alla nuova moda delle serie tv che rimpiccioiscono gli schermi, il tutto condito da aneddoti. Parla di un Orson Welles smemorato, di un Al Pacino in cappotto di pelle che fugge in metro dal set di Carlito’s Way, delle immagini cult di "Scarface"

In salotto con Brian De Palma. Il maestro della New Hollywood in giacca chiara oversize e scarpe da ginnastica sprofonda nel divano di una sala del Palazzo del cinema. Di lato, come angeli custodi, Noah Baumbach e Jake Paltrow, gli amici e registi del documentario De Palma, uno dei motivi del ritorno del cineasta alla Mostra, insieme al premio Jaeger-LeCoultre. Sembra di essere nel film, un monologo di 100 minuti che condensano dieci anni di cene, chiacchiere. De Palma ripercorre con schiettezza e gusto per la battuta quattro decadi di una carriera di grandi film e disastri economici, tra aneddoti – Orson Welles smemorato, Al Pacino in cappotto di pelle che fugge in metro dal set di Carlito’s Way – e le immagini cult di Scarface, Omicidio a luci rosse, Gli intoccabili, Mission impossible.
De Palma, il suo è un rapporto longevo con la Mostra.
«I miei film sono sempre stati accolti bene. Ho frequentato a lungo Venezia, dagli anni Settanta, ero ospite di Pino Donaggio. Ho lavorato con altri grandi, Morricone, Williams ma tornavo sempre da lui, la sua musica era perfetta per i miei thriller».
Nel film racconta di quando seguì suo padre per coglierlo in flagrante con l’amante. Poi ci sono stati tanti inseguimenti cinematografici.
«Cercavo di aiutare mia madre, intrappolata in un matrimonio infelice. Era stata lei a mandarmi. Tutto quel che produsse il mio inseguimento fu il loro divorzio. Si risposarono entrambi, con altri. Certo, la cosa mi ha influenzato: se ti nascondi dietro gli alberi a osservare gli altri, sviluppi un approccio voyeuristico alla vita».
Nel film si racconta con sincerità e grande ironia.
«Se vuoi lavorare nel business del cinema devi averne. Le reazioni sono sempre opposte a ciò che ti aspetti: pensi che un film sia terribile e loro parlano di capolavoro. Il segreto è: ironia, perseveranza, fortuna».
In “De Palma” c’è una foto in cui lei, Spielberg, Scorsese, Lucas, Coppola siete a un tavolo e sembrate molto amici.
«Eravamo un gruppo di giovani cineasti che dividevano tutto: attori, sceneggiature, idee. Poi ognuno ha preso la sua strada, viviamo in luoghi diversi».
Lei ha avuto una carriera diversa nell’Hollywood system.
«Spielberg ha costruito un impero nella Universal, lavorava a un ritmo per me insostenibile. Scriveva per la tv, girava film e intanto produceva cose di altri. Una volta uscimmo dal set di Il colore viola, in limousine Steven continuò a scrivere un copione mentre andavamo all’anteprima di Ritorno al futuro: un suo giorno tipico. George era concentrato su Star Wars, sulla sua casa di effetti digitali a San Anselmo. Marty ha fatto film audaci ma sempre dentro al sistema ed è il conservatore delle pellicole alla Scuola di New York. Io mi sono ritrovato fuori dal sistema. Sono sempre stato un regista d’avanguardia. Sono cresciuto nella New York anni Sessanta, fino al conflitto in Iraq ho fatto film contro la guerra, mantenuto una posizione critica verso la politica del mio paese».
Molti suoi film all’uscita non andarono bene, poi sono stati apprezzati.
«Purtroppo il metro di misura è lo stile del tempo. Se sei in sincronia sei celebrato, se sei fuori ti criticano. Ma lo stile cambia. Ricordo che molti miei film erano attaccati dal movimento femminista ogni volta che c’era una ragazza che veniva uccisa. Non era piacevole subire queste critiche ideologiche e arrabbiate».
Quali sono i registi a cui si sente affine per stile visionario?
«Alfred Hitchcock, di cui tutti dicono di aver subito l’influenza ma che poi sono stato l’unico a seguire. Poi Spielberg, Quentin Tarantino. Ce ne sono sempre meno, da quando gli schermi si stanno rimpicciolendo».
Molti registi girano serie tv.
«Per esperienza le dico che sono troppo intrusivi. Avevo un progetto, mi mandavano montagne di note. Volevo Al Pacino, non si poteva fare. La verità è che in tv contano il produttore e lo sceneggiatore. Il regista arriva e gira qualche episodio. E se riuscite a capire qual è la differenza di regia tra un episodio e l’altro, siete davvero bravi».