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 2015  settembre 10 Giovedì calendario

Tra i lebbrosi del Benin. Dal Senegal al Togo i malati sono migliaia, curati da pochi medici e volontari, e vivono da reclusi perché il mondo non veda. Hanno corpi che sembrano di cera, occhi bucati, bulbi oculari pieni di sangue, facce che sembrano sgretolarsi e mani e piedi mutilati. La malattia più antica della Terra esiste ancora ma più di qualcuno se ne è dimenticato

Nel 1999 ero in Benin quando per puro caso entrai in un lebbrosario. Stavo viaggiando in Africa con due amici. Uno di loro, un chirurgo, mi aveva chiesto di accompagnarlo per testimoniare il lavoro dei medici volontari in Togo, Burkina Faso e, appunto, nel Benin.
Un pomeriggio stavo facendo un giro in una zona molto isolata, faceva caldissimo ed io stupidamente indossavo un paio di infradito ai piedi. Non so come, mi feci un brutto taglio sotto il tallone sinistro, e così, trovandomi in difficoltà, decisi di entrare in una piccola struttura che pensavo fosse un distretto sanitario. Con mia grandissima sorpresa mi trovai di fronte ad una scena che non potrò mai dimenticare. Subito dietro ad un cancello, seduto in penombra sotto un albero, c’era un uomo che sembrava di cera. I suoi occhi erano bucati e i bulbi oculari pieni di sangue, la sua faccia sembrava sgretolarsi, le mani e i piedi avevano mutilazioni stranissime. Sembrava quasi che i suoi arti si fossero sciolti. Ricordo che mi si gelò il sangue, riuscii solo a dire «bonjour ça va»? Il cieco girò la testa nella direzione della mia voce e rispose con una voce flebile «ça va». A quel punto mi venne incontro una donna, e mi chiese di cosa avessi bisogno. Le spiegai del mio piede e mi invitò a seguirla. Entrammo all’interno della struttura passando in un piccolo corridoio dove altre 7 o 8 persone, tra loro un bimbo, avevano gli stessi orribili sintomi dell’uomo che avevo visto nel cortile. Chiesi che malattia fosse, pensando da profano che si trattasse di Buruli, ma la signora mi rispose che erano malati di lebbra. Non potevo credere alle mie orecchie, eravamo quasi nel 2000 e ancora esistevano persone affette dalla malattia più antica del mondo? Pensavo che fosse stata solo una parentesi del medioevo, invece c’erano decine di persone davanti ai miei occhi, che sembravano statue di cera in preda al delirio.
La signora mi medicò in una stanzetta, la ringraziai mille volte, e poi le chiesi «posso farle una foto, per ricordarmi di lei?». Si mise a ridere, era molto imbarazzata, ma acconsentì, così le scattai una foto.
In quel tempo non c’erano macchine digitali: avevo una Nikon F4 caricata con pellicola in bianco e nero. Disponevo ancora di una ventina di scatti, così, mentre stavo salutando la gentilissima signora, mi voltai di nuovo prima di uscire dal cancello e le chiesi di nuovo: «Potrei fare qualche scatto a queste persone?». «Pourquoi?». Non le seppi dare una risposta immediata, ma a volte il silenzio vale davvero più di mille parole. Forse colpita dal mio imbarazzo, la signora disse sbrigativa: «Seulement 5 minutes». Mi guardai intorno di nuovo, ormai erano tutti incuriositi da me, un uomo bianco che era tanto interessato a loro. Cercai di sorridere, di parlare e di muovermi con molta delicatezza, non volevo infastidirli e tanto meno mancare loro di rispetto. Stavo quasi per rinunciare e rimettere la macchina nella borsa, quando un giovane mi si parò davanti mimando il gesto di fotografarlo. Non sembrava avere mutilazioni o ulcerazioni evidenti, ma fotografando lui si ruppe il ghiaccio tra me e tutte quelle altre persone, che si resero disponibili ad essere ritratte. Finito il rullino, finiti quei venti scatti, non ne caricai uno nuovo. Sentivo che era meglio smettere, salutare e andarmene, anche per poter analizzare a mente fredda cosa avevo visto in quella piccola struttura. Ne parlai con i miei due compagni di viaggio e per tutto il mese che restammo non ci ritornai. Dentro di me, non riuscivo bene a capire cosa potessi fare per quelle persone, i miei pensieri non erano razionali. Da un lato volevo tornare a visitarli, dall’altro mi sentivo impaurito.
Rientrato in Italia non riuscivo a smettere di pensare a quel lebbrosario. Sviluppai proprio quel rullino prima di tutti gli altri, feci i provini e poi stampai 4 o 5 immagini. Intanto cresceva dentro di me la voglia di iniziare un vero reportage sulla lebbra, così iniziai a documentarmi il più possibile sull’argomento e, nel giro di un paio di mesi, ero pronto a ripartire. Da allora ho intrapreso molti viaggi in Africa per sviluppare questo servizio, tornando e ritornando nei vari lebbrosari che avevo visitato, per poter dare voce a tutte quelle straordinarie persone che, vittime della loro stessa malattia, sono ghettizzate in villaggi lager lontani dalla civiltà e dimenticati da tutti e a quei medici e volontari che si occupano di loro, spesso in condizioni drammatiche. Il mio unico intento è quello di smuovere la coscienza della gente, e cercare, attraverso la fotografia, di poter aiutare tutti coloro i quali ancora oggi sono vittime di questo morbo. Una malattia così spaventosa che in Italia per legge dal 1974 i malati di lebbra si devono chiamare hanseniani. Ma cambiare un nome non cambia la realtà.