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 2015  settembre 10 Giovedì calendario

Il mattatoio di Milano. Giampaolo Pansa racconta in un nuovo libro per Rizzoli l’Italia del 1945 tra delitti politici rimasti senza colpevoli; reduci di Salò che si vendicano; fanatismi barbarici; partiti divisi dall’odio; misteri ed enigmi che diventano incubi. Eccone un estratto

«Lei ci ha raccontato ancora un’altra storia che ha per protagonista un milite della Repubblica sociale» osservò Carlo a Giovanna Aceto. «Perché le stanno tanto a cuore i fascisti? Mi piacerebbe saperlo».
La domanda del ragazzo arrivò come una freccia nel cuore della giornalista. Lei arrossì e sembrò in preda al panico. Poi si riprese, e con le labbra che tremavano balbettò: «Capisco perché tu me lo chieda. E per farlo comprendere a un giovane come te, dovrò consegnarti un pezzo della mia vita.
«Sono nata a Milano nel 1906 e fino ai trent’anni non ho mai voluto sapere nulla di Mussolini, del fascismo e dei fascisti. Mi ero laureata in Legge e lavoravo con mio padre. Era un commercialista importante, con molte relazioni, e questo mi esentava dal prendere la tessera del partito. Quando Mussolini ha conquistato il potere avevo sedici anni, studiavo al liceo Manzoni e nei pomeriggi leggevo romanzi d’amore. Sognavo di vivere le passioni che incontravo in quelle pagine. Il principe azzurro era il mio eroe desiderato. Il ciclone politico che stava cambiando l’Italia mi appariva del tutto estraneo, come se fossero vicende di un pianeta lontano.
«La mia esistenza è cambiata di colpo il giorno che ho conosciuto un giovane professore, insegnante di storia e filosofia nei licei. Ci siamo incontrati per caso, in biblioteca. Non riuscivo a trovare il libro che cercavo e lui mi ha aiutato. Prima di conoscerlo avevo flirtato con qualche ragazzo, figlio di amici della nostra famiglia. Erano storie senza importanza che non lasciavano traccia dentro di me. Ma dopo essermi imbattuta nell’“uomo della biblioteca”, all’inizio lo chiamavo così, compresi che con lui tutto sarebbe stato diverso.
«Era il 1938 e io avevo trentadue anni. Qualcuno mi avrebbe definito una zitella quasi attempata. In realtà cercavo una persona da amare. Lui si chiamava Aldo V., aveva due anni più di me ed era un fascista convinto. Da studente era stato un animatore dei Guf, i Gruppi universitari fascisti. Scriveva sulle riviste culturali del regime e frequentava intellettuali convinti che Mussolini fosse l’inizio e la fine di tutto. Aveva un carattere dolce e anche nella militanza politica non si comportava da violento. Sapeva che molti oppositori del Duce erano stati uccisi o si trovavano in carcere e al confino. Mi diceva: “Mussolini dovrebbe essere più generoso. Ha il consenso di tutti gli italiani e soltanto lui potrebbe fare un gesto che gli darebbe un posto nella storia: attenuare il rigore del regime e ridare la libertà a tanti”.
«Ci amammo per la prima volta in un hotel sul lago Maggiore. Provai un piacere che non conoscevo e, insieme, una felicità immensa. Vincendo le resistenze di mio padre, andai vivere con Aldo, nel suo piccolo alloggio a Porta Ticinese, davanti alla Basilica di Sant’Eustorgio.
«Pensavamo di sposarci il giorno che la guerra si fosse conclusa. Entrambi eravamo convinti che l’Italia ne sarebbe uscita come una nazione vittoriosa, accanto agli alleati dell’Asse: la Germania e il Giappone. La nostra era soltanto un’illusione e svanì presto. Nel luglio del 1943 Aldo pianse di rabbia per la caduta di Mussolini. E in settembre, dopo l’armistizio, mi confessò di essere disperato per la nostra resa agli angloamericani.
«Aderì subito al Partito fascista repubblicano e nell’estate del 1944 iniziò a lavorare come redattore in un quotidiano che si stampava a Milano: “Repubblica fascista”. E adesso dovrò raccontare la vicenda di questo giornale perché avrà una parte decisiva nella storia di Aldo e mia».
«Era un quotidiano nuovo, fondato nel gennaio 1944, quattro mesi dopo la nascita della Repubblica sociale. Il ministro per la Cultura popolare, Ferdinando Mezzasoma, ne aveva affidato la direzione a Carlo Borsani, cieco di guerra, medaglia d’oro al valor militare e leader dell’Associazione nazionale mutilati. Borsani aveva ventisette anni e impresse a “Repubblica fascista” una linea politica che non poteva essere accettata da Mussolini e soprattutto dai più fanatici tra i suoi ministri. Lui sosteneva la necessità di arrivare a una conciliazione nazionale tra fascisti e antifascisti. L’unica via per concludere la guerra civile.
«La direzione di Borsani non superò l’estate del 1944. Mezzasoma era un fascista intransigente e decise di metterlo in disparte. Gli scrisse un lettera che diceva: “I tuoi scritti stonano maledettamente con la testata del giornale affidato alla tua direzione, così pienamente impegnativa dal punto di vista fascista. Per noi fascisti non può esservi altro punto d’incontro di questo: la vecchia bandiera fascista, che è la bandiera per la quale e contro la quale il mondo si è schierato in due campi opposti”.
«Poi il ministro silurò Borsani. Al suo posto venne insediato un nuovo direttore, Enzo Pezzato, e un nuovo redattore capo, Sebastiano Caprino. Il primo aveva ventotto anni e il secondo ventinove. Aldo entrò nella redazione con loro. Io ero contraria a questo impegno perché lo ritenevo pericoloso. Ma lui mi replicò che non poteva venir meno al giuramento di difendere la Repubblica sociale.
«Sappiamo tutti quanto accadde verso la fine del 1944 e l’inizio del 1945. Hitler e Mussolini stavano perdendo la guerra. Ne era sicuro anche Aldo, ma non voleva tradire una scelta fatta anni prima. Io temevo per lui e la mia paura cresceva giorno dopo giorno. Lo scongiurai più di una volta di lasciare il giornale e di nascondersi. «La sua era diventata una firma nota e questo accresceva il pericolo. La guerra civile si stava facendo sempre più spietata. E alla fine i vincitori avrebbero presentato il conto anche a lui. Aldo mi replicò: “Non posso fuggire. Sarebbe una decisione da codardo”. Gli domandai se non temesse le vendette dei partigiani. Lui mi rispose: “Certo che le temo. Ma temo ancora di più la vigliaccheria di chi rinnega la propria bandiera”. «L’ultimo numero di “Repubblica fascista” uscì la mattina del 26 aprile 1945. Prima di lasciare il giornale, Pezzato pagò lo stipendio ai redattori e ai tipografi. Poi si nascose in un appartamento di via Scarlatti, accanto alla stazione Centrale. Con lui c’erano Caprino e la segretaria di redazione Pia Scimonelli. Invece Aldo preferì rifugiarsi in un piccolo alloggio sempre a Porta Ticinese, ma distante dalla nostra tana.
«Il 24 aprile, poco prima di concludere il suo lavoro al giornale, era venuto a trovarmi nella casa di mio padre dove Aldo mi aveva costretta a trasferirmi. Disse: “Una buona stella ci ha fatti incontrare. E la medesima stella ci aiuterà a ritrovarci”. Lo scongiurai di non restare in città: “Tra qualche giorno, quando arriveranno i partigiani, Milano diventerà un mattatoio. La caccia al fascista sarà feroce. Devi fuggire in provincia, lontano da qui, in qualche posto di campagna dove nessuno ti conosca”. Lui rifiutò di farlo: “Voglio restare vicino a te. Non riesco a immaginare di lasciarti sola”. Furono le ultime parole che ascoltai da Aldo.
«Avevo visto giusto. Sino alla fine del maggio 1945, Milano divenne un inferno per chi era stato fascista o in rapporti con la Repubblica sociale. Tra i tanti fucilati ci fu pure Borsani, l’ex direttore di “Repubblica fascista”. Non aveva commesso nessun delitto e meno che mai incitato alla violenza. Anzi il vertice della Rsi lo considerava quasi un avversario perché predicava la riconciliazione fra gli italiani.
«All’alba di venerdì 27 aprile, i partigiani andarono a prelevarlo all’Istituto Oftalmico e lo portarono negli scantinati del Palazzo di giustizia. Quella stessa sera venne condotto lì un sacerdote di quarantasei anni: don Tullio Calcagno. Aveva fondato e diretto il settimanale “Crociata italica”, un foglio che usciva a Cremona dove poteva contare sulla protezione del ras locale, Roberto Farinacci. I partigiani lo arrestarono a Crema sempre il 27 aprile. E lo trasferirono subito a Milano.
«Nel pomeriggio di domenica 29 aprile, Borsani e don Calcagno furono tradotti alle scuole elementari di viale Romagna. Il primo era cieco e mi ferisce il cuore se lo immagino spinto a forza mentre cammina a tentoni. In quell’edificio si era insediato un tribunale del popolo. Il processo durò pochi minuti e si concluse con la condanna a morte di entrambi. I due prigionieri furono trasportati in piazzale Susa. Il primo a essere ucciso fu don Calcagno. Poi toccò a Borsani.
«Il suo cadavere venne gettato su un carretto della spazzatura. Qualcuno gli mise al collo un cartello che diceva: “Ex medaglia d’oro”. Il carretto fece un lungo giro per le vie dell’Ortica, del quartiere Monluè e di Città Studi. Sempre accolto dalle urla di una folla imbestialita che imprecava, lanciava sassi, sputava. Lo spettacolo proseguì per più di un’ora. E si concluse all’obitorio.
«A decidere una fine diversa fu un personaggio che aveva sempre perseguitato gli ebrei come voi. Era Giovanni Preziosi, aveva sessantaquattro anni e guidava l’Ispettorato speciale della razza, situato a Desenzano del Garda. Nell’aprile 1945 si sentì perduto. I cinquanta tra funzionari e impiegati al suo servizio erano già scappati. Anche lui scelse di fuggire con la moglie e il figlio adottivo, un bambino di nove anni.
«Preziosi arrivò a Milano nella tarda mattinata di giovedì 26 aprile e si rifugiò da un conoscente che abitava in corso Venezia, una delle strade eleganti della città. Disse al padrone di casa che intendeva aspettare l’arrivo degli angloamericani e consegnare al governo italiano i documenti dell’Ispettorato. In realtà aveva già stabilito di uccidersi, per non essere catturato da qualche partigiano ebreo e subire l’inevitabile vendetta. Confidò alla moglie il suo proposito. E lei si disse pronta a seguirlo nella morte.
«Allora Preziosi scrisse una lettera che si concludeva così: “Oggi che tutto crolla non so fare nulla di meglio se non sopravvivere. Mi segue in questo atto colei che ha condiviso tutte le mie lotte e tutte le mie speranze”. Subito dopo lui e la moglie si gettarono insieme dal quinto piano, saltando dalla finestra della camera in cui dormiva il figlio.
«I coniugi si schiantarono nel cortile del palazzo. Era il pomeriggio del 26 aprile. La mattina seguente i due corpi vennero raccolti dall’ambulanza incaricata di raccattare i morti del quartiere, che ormai cominciavano a essere parecchi. Lì per lì all’obitorio non vennero identificati. Preziosi fu poi riconosciuto da un cronista del “Corriere della Sera”».
 
Arriva oggi in libreria il nuovo libro di Giampaolo Pansa L’Italiaccia senza pace. Misteri, amori e delitti del dopoguerra (Rizzoli, pp. 352, euro 20), in cui il grande giornalista e storico, firma di punta di Libero, racconta gli anni dal 1945 al 1949, narrando le peripezie della (immaginaria) famiglia ebrea di Samuele Segre. Nelle sue pagine sfilano delitti politici rimasti senza colpevoli; reduci di Salò che si vendicano; fanatismi barbarici; partiti divisi dall’odio; misteri ed enigmi che diventano incubi. L’Italiaccia senza pace conclude il ciclo dei volumi revisionisti sulla guerra civile italiana iniziato nel 2003 con Il sangue dei vinti.