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 2015  settembre 10 Giovedì calendario

Anaïs Nin, lo striptease di un’anima. Le sue giornate erano un concentrato di passione, di erotismo e di letteratura. Parigi e New York sono state i teatri di questa creatura straordinaria, Freud e soprattutto Rank le sue vitamine intellettuali. Non si può tuttavia nascondere che a volte Anaïs, la più anticonformista e programmaticamente disinvolta diarista del secolo breve, scrive delle adorabili sciocchezze

Anaïs Nin amava riamata, seduceva a sua volta sedotta. Le sue giornate erano un concentrato di passione, di erotismo e di letteratura. Tanta letteratura in salsa psicoanalitica. In lei gli anni Trenta del Novecento hanno trovato un’insostituibile icona del loro fascino e delle loro morbosità. Parigi e New York sono state i teatri di questa creatura straordinaria, Freud e soprattutto Rank le sue vitamine intellettuali. Non si può tuttavia nascondere che a volte Anaïs, la più anticonformista e programmaticamente disinvolta diarista del secolo breve, scrive delle adorabili sciocchezze come avesse quali interlocutori sempre e solo i suoi innamorati o le sue innamorate disposti a perdonarle l’imperdonabile. Cosi, lei che sapeva essere un critico al fosforo, si lascia scappare banalità di questo calibro: «Penso che scrittori come Sartre (l’autore di melodrammi politici), Osborne, (Arthur) Miller, Brecht, eccetera, siano semplicemente i nuovi auteurs du boulevard, rappresentanti di un conformismo di sinistra che è altrettanto pietoso di quello di destra». Peccato non aver potuto chiedere alla Nin, tanto per fare paragoni, chi erano a suo giudizio i campioni del conformismo di destra. Quali nomi avrebbe posto sullo stesso piano di Brecht?
Va chiarito subito che da Anaïs, dal suo spericolato cercarsi fuori dalle ideologie, ci si possono aspettare molte gradevoli sorprese e qualche forzatura di troppo. Nei suoi appunti quotidiani, a esempio, finisce persino con l’anticipare umori oggi molto diffusi. Succede quando scrive a proposito della de Beauvoir: «Leggo I Mandarini con interesse e ammirazione. Non perché creda in quanto afferma l’autrice, ma perché è bravissima nel drammatizzarlo...». Di qui una tirata che anticipa d’un sessantennio, in modo però decisamente deludente, pregiudizi e malumori dell’odierna antipolitica.
A ragione lo sterminato Diario della Nin è ormai considerato, a dispetto dei bacchettoni, un’opera «culto» del Novecento. I sei volumi, in cui è stato suddiviso e pubblicato un materiale autobiografico davvero sterminato, costituiscono la coraggiosa messa a nudo, la confessione talora persino imprudente e sempre generosa d’una donna che si spoglia di ogni pregiudizio. Non fa che giudicarsi e giudicare, raccontando il suo tempo e il suo mondo con impagabile originalità. Fondamentale, in questo striptease di un’anima di un’intelligenza e di un corpo, è l’avvicinamento a Otto Rank, ex allievo prediletto di Freud poi allontanato dal Maestro.
A partire da quell’incontro terapeutico, iniziatosi nel novembre 1933, il Diario della Nin si avvicina sempre di più a un antiromanzo. Si fanno infatti sentire con sempre maggiore forza nella rielaborazione del vissuto le teorie rankiane relative al valore curativo della creatività specie nella cura della nevrosi. La rigidità scientifica lascia posto all’intuizione, a un libero confronto con le esperienze intellettualmente e moralmente estreme. Parlano le viscere, si fa spazio all’emotività. L’assenza di censure preventive giova a una narrativa coinvolgente perché disinvolta, impulsiva.
Le annotazioni giornaliere della Nin, che occupano ben quindicimila pagine dattiloscritte risolutamente potate e snellite al momento della pubblicazione in volume, sono un fiume in piena gonfio di giudizi umani e letterari, di ritratti che nascono come fotografie ma divengono senza parere qualcosa di più, a volte di molto di più. Ecco, a conferma, qualche riga da una folgorante istantanea di Antonin Artaud di cui Anaïs si farà sostenitrice appassionata: «Magro, tirato. Una faccia emaciata, con occhi visionari. Un’aria sardonica. Ora stanco, ora ardente e malizioso. Il teatro è per lui il posto dove gridare il dolore, la rabbia, l’odio, per rappresentare la violenza che c’è in noi». E qualche riga più avanti: «Egli è l’essere drogato, contratto che cammina sempre da solo, che sta cercando di produrre commedie che sono come scene di tortura».
Non è inutile ricordare come, in che modo sia nata giorno per giorno quest’opera strutturalmente vicina a un collage. Anaïs l’ha portata avanti per anni e anni con l’ostinazione d’un marginale quanto irrinunciabile impegno quotidiano. Su dei quadernetti, che rinnovava e portava sempre con sé, veniva fissando impressioni, prendeva appunti ovunque veniva a trovarsi. Al bar, in treno, al termine d’una cena, fermandosi all’angolo d’una strada di New York o di Parigi. Nel calderone dei materiali così raccolti finivano anche ricordi di chiacchierate, registrazioni di incontri, cammei di quello che Proust (divinità più o meno occulta della Nin) identificava col tempo perduto. Così ogni giorno a partire dall’inizio degli anni Trenta sino a tutto il 1966.
Leggendo oggi quelle scritture, che hanno qualcosa di stenografico nell’articolazione legnosa dei periodi e nelle frasi sempre spoglie, si respira come in pochissime altre opere del tempo il clima dell’Europa, l’aria che poteva esserci al Greenwich Village e dintorni in quel terzo, sempre più minaccioso decennio del secolo breve. Quando, non solo le barbare dittature di Hitler o di Stalin o di Mussolini ma anche l’arte, tutto proprio tutto sembrava congiurare contro un futuro a misura d’uomo.
Le pagine forse più emotivamente coinvolgenti del Diario ritengo siano quelle riservate all’incontro con Henry Miller e la moglie June. Qui Anaïs rivela la sua natura di vera locomotiva dell’amore. Appena vede Miller, al tempo bohémien estremo anche perché gravido del Tropico del Cancro (sarebbe uscito di lì a poco), questa seduttrice eternamente sedotta prende fuoco. Perde la testa per quel quarantenne «snello, asciutto, non alto». Lo avvicina «a un monaco buddista...con un’aureola di capelli argento vivo, e la bocca piena e sensuale...». E lo vede, sottolineando il fascino d’un tale contrasto, diverso dalla tipica scrittura milleriana «violenta, vitale, brutale...». Così Anaïs tutta brodo di giuggiole in compagnia di Henry «esplora le sinfonie (sic) di Proust, l’intelligenza di Gide, le fantasie di Cocteau, i silenzi di Valery, le illuminazioni di Rimbaud». Guai però a fidarsi di questo clima da idillio. Un attimo dopo ecco infatti la Nin dichiararsi innamorata cotta di June, la moglie di Henry. Impazzisce, si torce di passione per quella che le appare una creatura mutevole e inafferrabile. Magica. «Amo le sue stravaganze, la sua umiltà, la sua paura di delusione» afferma vicina a perdere l’autocontrollo. Così un giorno finisce per correre allarmata da Rank, il suo strizzacervelli. Vuole consiglio. Risultato? «Il dottor Rank chiarificò immediatamente la mia relazione con June. Non era lesbismo. Imitavo mio padre che corteggiava le donne». Sembra la battuta conclusiva d’una gag di Woody Allen che all’epoca però doveva ancora nascere.
I sei volumi del Diario, documento fra l’altro d’un «immoralismo» molto anni Trenta e forse anche di lontana impronta gidiana, sono (lo si accennava) un’opera estrema. Rappresentano il testamento spirituale d’una delle grandi protagoniste di un’epoca ancora capace di stupirci, di una stagione culturale in grado di farsi rimpiangere con la stessa forza con cui sa irritare. Un’epoca che i giovani d’abitudine bypassano per noia o per incomprensione o per diffidenza ma da cui si sentiranno molto meno lontani leggendo Anaïs Nin. Nelle sue pagine si trova scritto quello che non c’è nei libri di storia e nemmeno nei romanzi. La vita quale la vedeva una donna che palpitava, amava, scriveva continuamente interrogandosi.