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 2015  settembre 03 Giovedì calendario

L’Italbasket nelle mani di Belinelli, il bolognese doc che conquistò la Nba. Dall’Emilia a Sacramento via San Antonio: in un libro la storia della guardia che vuole portare la nostra Nazionale ai Giochi. «La volontà può essere più forte del talento. A chi non credeva in me, ora posso dirlo: ce l’ho fatta»

Uno su mille ce la fa. E non è proprio quello, detta come va detta, che ce la doveva fare, per noialtri restanti 999. Batte in testa il verso di Gianni Morandi, bolognese di montagna, chiudendo il libro su vita, miracoli e tiri da tre punti di Marco Belinelli, bolognese di pianura, giocatore di basket arrivato laddove neppure lui immaginava. Sperandoci sempre, però. Puntandoci, anzi. E riuscendoci, alla fine, poichè «la volontà riesce ad essere più forte del talento», come sta inciso nell’iniziale dedica a se stesso che tutto racchiude.
Figlio della razza dei finti umili che in sè credono fieramente, Belinelli fu campione Nba nel 2014 coi San Antonio Spurs, e sarà soprattutto, da sabato, una delle stelle azzurre che tenterà di riportare l’Italia, attraverso il valico scosceso dei campionati Europei, a un’Olimpiade disertata da dodici anni. Ha questa tempistica non casuale, allora, l’odierna uscita in libreria di “Pokerface”, biografia fra la via Emilia e il West stampata da Baldini&Castoldi. Il titolo è modellato sulla faccia sua, del “Beli”: ferma, quieta, impenetrabile comunque vada il gioco, s’alternino arcobaleni o bufere, canestri decisivi o errori fatali. Si frantumò solo, quel viso da scommessa, quando Marco finalmente vinse: un pianto liberatorio ci inondò tutti in mondovisione, si sarebbe detto una volta, la notte che s’issò sul gradino più alto del mondo e mandò a dire, alla faccia nostra, che ce l’aveva fatta.
Ragazzo diventato ricco senza essere nato povero, e per questo vaccinato agli eccessi che infettano chi fama e denari li estrae evadendo da ghetti invivibili, Belinelli si confessa, lungo 245 pagine, ad Alessandro Mamoli, voce di Sky, ex dimenticabile giocatore poi divenuto cronista, dunque estensore complice, non digiuno di squadre, spogliatoi, vite da cenobiti illustri. Dalla soffice infanzia nella bassa emiliana (San Giovanni in Persiceto, ombelico mai reciso del suo mondo) alla salita coi due vessilli bolognesi, prima Virtus poi Fortitudo, alla scelta di andare in Nba, il campionato più duro del mondo, alle tante maglie inzuppate di sudore prima di infilare quella giusta. Sentirsi invisibile a San Francisco, fuori posto a Toronto, sbocciato a New Orleans, apprezzato a Chicago, felice e vincente a San Antonio, la movimentata scansione degli umori sale e scende per 8 stagioni, dal 2007. L’odierno provvisorio approdo è un amaro risentimento per la mancata riconferma nella famiglia di San Antonio, grata a stimarlo, però restia ad aggiungere alla paga qualche dollaro in più. Così, fine della storia, e «quei 45 milioni dati a Danny Green non mi vanno giù: se gli avessero offerto cifre più basse, avrebbero potuto farmi un’offerta più allettante». Ed è l’inizio di un’altra storia ai Sacramento Kings, prossima fermata con un triennale da 19 milioni, per esserne un giocatore cardinale, non più il ballerino di seconda fila bravo a non incespicare se gli tocca la prima.
Ma la sfida battente è questa in azzurro, con un risultato da centrare, per ribadire che quelli ottenuti di là (anche una gara di tiro da tre, all’All Star Game 2014) non erano farina di sacchi altrui, ma traguardi toccati partita dopo partita, tiro dopo tiro, dollaro dopo dollaro. Davanti alla faccia da poker il solito canestro, dietro i princìpi saldi che permeano un suo fidato ed esclusivo clan intessuto di reti familiari e antiche amicizie mai rinnegate del borgo, alcune addirittura trasferite negli States, per non dover pensare neanche alla bistecca da grigliare per cena, ma solo ai tiri da centrare. Otto anni di scalate, salendo fino alla Casa Bianca per un buffetto tifoso di Obama. «Quanto sei mancato, Marco, ai miei Bulls». Uno su mille. Meno, molti di meno.