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 2015  settembre 03 Giovedì calendario

Ora l’accordo sul nucleare iraniano è al sicuro da una bocciatura da parte del Senato americano. Con la presa di posizione della senatrice democratica Mikulski, Obama può contare su 34 voti necessari al Senato per poter salvare l’accordo tramite l’uso del diritto di veto anche in presenza di una maggioranza contraria. Si tratta di una vittoria tutt’altro che scontata, soprattutto in presenza di una battaglia senza esclusione di colpi (e di mezzi finanziari) condotta da chi – non solo dai repubblicani, ma da Bibi Netanyahu e dall’Arabia Saudita, e dalle rispettive lobby – denuncia l’accordo come un pericoloso «cedimento agli ayatollah»

Da ieri l’accordo sul nucleare iraniano è al sicuro da una bocciatura da parte del Senato Usa. Con la presa di posizione della senatrice democratica Mikulski, il conteggio delle intenzioni di voto, al Senato, ha fatto registrare il conseguimento della quota (34 voti favorevoli) che rende possibile a Obama di salvare l’accordo tramite l’uso del diritto di veto anche in presenza di una maggioranza contraria. Anzi, a questo punto non è escluso nemmeno che alla fine non si riveli nemmeno necessario per Obama esercitare il veto presidenziale, dato che i democratici potrebbero impedire un voto contrario tramite il «filibustering», l’ostruzionismo parlamentare ben noto, e ampiamente praticato, nel Congresso americano.
Si tratta di una vittoria tutt’altro che scontata, soprattutto in presenza di una battaglia senza esclusione di colpi (e di mezzi finanziari) condotta da chi – non solo dai repubblicani, ma da Bibi Netanyahu e dall’Arabia Saudita, e dalle rispettive lobby – denuncia l’accordo come un pericoloso «cedimento agli ayatollah».
Data per scontata l’opposizione dei repubblicani, decisi fra l’altro a cogliere l’occasione di sconfiggere un Presidente di cui spesso sono sembrati persino negare la legittimità, il risultato dipendeva dai dubbi all’interno del partito democratico, storicamente vicino all’elettorato ebraico. I dubbi, nonostante recenti defezioni che avevano fatto seriamente preoccupare la Casa Bianca, non hanno prevalso, e non solo per disciplina di partito o solidarietà con il Presidente. Il fatto è che, secondo sondaggi dell’ultima ora, l’opinione pubblica americana è in maggioranza favorevole all’accordo, nonostante la radicata avversione nei confronti del regime iraniano. Lo è di stretta misura, con poco più del 50 per cento, e in modo che rivela una radicale divergenza politica. I favorevoli sono il 70 per cento fra i democratici: la stessa percentuale di contrari fra i repubblicani. Va notato anche che gli stessi sondaggi hanno rivelato che gli ebrei americani risultano in ogni caso più favorevoli all’accordo della media dei cittadini.
Il risultato, al di là di quanto è avvenuto all’interno dei partiti, è stato reso possibile da un’ampia mobilitazione nella società civile che ha visto appelli di decine di ex ambasciatori americani, di scienziati, di esperti di controllo degli armamenti, di intellettuali, di associazioni di iraniani-americani e persino di dissidenti iraniani, inclusi il Premio Nobel Shirin Ebadi e molti che si sono acquistati una incontestabile credibilità con un coraggio pagato con anni di prigione. Dissidenti che sono convinti del fatto che, anche se non è certo che l’accordo aprirà la via a un’apertura del sistema politico, quello che è certo è che un suo annullamento rafforzerebbe non solo i pericoli di guerra, ma anche le tendenze più repressive all’interno del regime, mettendo in forse la continuazione dell’esperimento centrista di Rohani.
Al di là delle contrapposizioni partitiche, risulta che Obama è riuscito a far capire alla maggioranza degli americani quale fosse la vera posta in gioco: una scelta fra i difficili, ma razionali cammini della diplomazia e un’opzione militare che, come hanno dimostrato sia l’Iraq che la Libia, rischia di portare a una destabilizzazione incontrollabile e a disastri peggiori di quelli cui si voleva mettere fine. È questo un convincimento molto profondo di Obama. Viene da ricordare il discorso pronunciato a West Point qualche mese fa, quando il Presidente, citando un’espressione popolare americana, aveva detto: «Il fatto che abbiamo il miglior martello del mondo non significa che tutti i problemi siano chiodi».
Ma non si tratta solo dell’alternativa fra diplomazia e guerra, e non solo di Iran e Medio Oriente. Con l’avvio della normalizzazione dei rapporti con Cuba Obama ha dimostrato di essere coerente rispetto ai principi di cambiamento e progresso che avevano convinto gli elettori americani a portare alla Casa Bianca un quasi sconosciuto senatore dell’Illinois. Principi che hanno fra l’altro ispirato la sua difficile, ma alla fine vincente campagna a favore dell’introduzione di una riforma sanitaria che ha messo fine allo scandalo di milioni di americani privi di assicurazione.
Obama il prudente, Obama il centrista, Obama l’accademico, Obama il «freddo» incapace di comunicare passione politica, e per i suoi critici persino di sentirla, rivela sorprendentemente in questo scorcio finale del suo secondo mandato presidenziale notevole capacità di decisione, grande fermezza e grande capacità di concretare i suoi ideali.
Iran, Cuba, riforma sanitaria – tre tematiche che sollevano l’opposizione più radicale dei repubblicani – ma anche prese di posizione forti su altri temi come il controllo delle armi da fuoco o la politica penitenziaria, caratterizzata da tassi record di incarcerazione sul totale della popolazione e dall’applicazione di sentenze spropositate anche per crimini minori. Ci vuole coraggio per prendere di petto la lobby della National Rifle Association, e l’attaccamento degli americani alla possibilità di difendersi da soli. E ci vuole coraggio, soprattutto per il primo Presidente nero, a contrastare gli umori repressivi di una società resa conflittuale, e spaventata, dalla questione razziale.
Si può certamente dire che ormai, non dovendo più sottoporsi all’elettorato, Obama può finalmente permettersi di essere coerente e coraggioso. È vero, ma questo non consente di mettere in dubbio l’autenticità delle sue convinzioni e il fondamento oggettivo delle sue decisioni politiche. E poi, è sia comprensibile che legittimo che un Presidente, accantonate le inevitabili mediazioni della politica in un sistema democratico, ci tenga a passare alla storia con un profilo alto – un profilo sulla cui base sarà per lui anche possibile costruirsi un ruolo non secondario di «ex Presidente» capace di continuare a contribuire alla vita sia politica che ideale del proprio Paese.
L’«anatra zoppa», per usare la terminologia politica americana, ha accelerato il passo invece di rallentarlo.