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 2015  settembre 03 Giovedì calendario

Facciamo un bilancio dei primi sei mesi di Mattarella al Quirinale. C’è chi lo critica perché i suoi silenzi (sulla riforma del Senato) farebbero «troppo rumore» o sarebbero addirittura «inquietanti» (sulla scuola e sulla Rai) e chi sostiene che «un presidente con i sandali», ossia dai costumi austeri e frugali, non sia la figura più adatta a battere l’antipolitica. La difficoltà del ruolo di arbitro e la ricerca di un ritorno alla normalità istituzionale

L’honeymoon di Sergio Mattarella con gli italiani sta durando ben più dei cento giorni che furono assegnati a Roosevelt per familiarizzarsi con le prerogative della Casa Bianca e che fecero parlare appunto di «luna di miele» con l’America. Compiuto il giro di boa dei sei mesi dall’insediamento al Quirinale, alcune incrinature di quel canonico patto di tregua si colgono invece nel campo della politica. Scricchiolii, niente di più. Almeno per il momento. Sufficienti però a far già dire a qualcuno che i suoi silenzi (sulla riforma del Senato) fanno «troppo rumore» o che sono addirittura «inquietanti» (sulla scuola e sulla Rai) e che «un presidente con i sandali», ossia dai costumi austeri e frugali, non è la figura più adatta a battere l’antipolitica. Recriminazioni curiose, se si considerano le critiche rivolte agli inquilini del Colle «super-esternatori» e «interventisti». Umori che, se trasferiti sull’opinione pubblica, potrebbero nascondere una voglia di presidenzialismo più interiorizzata e diffusa di quanto si crede.
La verità è che Mattarella è un uomo di poche parole e molti gesti, che insegue «la normalità istituzionale» e detesta forzature e modelli di supplenza borderline. E sembra difficile che cambi. Basta pensare al suo abbraccio di luglio al figlio di Paolo Borsellino, Manfredi, in una Palermo intossicata dalle polemiche, con tutto ciò che quell’atto di solidarietà esprimeva più potentemente di un discorso carico di moniti.
Silenzioso, dunque, lo è e lo rimarrà. Per naturale propensione alla misura. Per una vena di sicilianità autorevole. Per una certa concezione del potere, che gli suggerisce di non inflazionare i messaggi e che tuttavia non ne fa una figura prudente fino a cadere in eccessive timidezze. Perché se c’è da alzare la voce, la alza, anche aspramente. Lo dimostrano diversi passaggi del suo percorso politico. Come quando nel 1990 si dimise da ministro contro la legge Mammì sulle tv berlusconiane, o quando definì «un incubo irrazionale» l’ipotesi che Forza Italia entrasse nel Ppe. E lo confermano le prime mosse che ha compiuto da capo dello Stato. Pure queste destinate a comunicare come vuole interpretare il ruolo.
Le scelte di maggiore impatto sulla gente comune – e sull’alta burocrazia di Stato – riguardano le iniziative di riorganizzazione interna del Quirinale. Dall’assegnazione degli alloggi di servizio (drasticamente ridimensionati) all’apertura del palazzo ai cittadini, dai progetti per rendere fruibile la tenuta di Castelporziano (dove per l’intera l’estate sono stati ospitati disabili di varie associazioni) alle misure di contenimento delle spese che, giusto in queste settimane, stanno entrando nel dettaglio.
Questo è un primo aspetto, che risponde anche alle tante sollecitazioni esterne per un segno di cambiamento verso una maggiore sobrietà. E poi, altro esempio per capire come la pensa e come si muove il presidente, ci sono i suoi continui riferimenti alla Resistenza e alla Costituzione. Temi sui quali interviene con ragionamenti che andrebbero tarati su una doppia lettura. Da un lato c’è la rivalutazione dello spirito originario della Carta, con la sottolineatura del suo fondamento resistenziale, in una chiave che ne vuole cogliere la genesi antitotalitaria. Dall’altro lato c’è lo sforzo di imporre su questi due cardini una riflessione collettiva secondo una logica finalmente non conflittuale, in modo che la Resistenza non sia più un’arma da brandire contro qualcuno, com’è stato per tanto tempo.
Ancora, per decifrare il presunto enigma-Mattarella, va tenuto presente il ruolo di arbitro che si è attribuito fin dal giuramento. Quando avvertì «i giocatori», vale a dire i politici, ad aiutarlo con la loro «correttezza», lasciando intendere che non avrebbe permesso trucchi o giochi sporchi. Il che non significa passività o rinuncia a quell’opera di moral suasion più o meno platealmente esercitata dai suoi predecessori. Infatti, un certo lavoro di persuasione morale (un additivo di sorveglianza, lo si è definito) lo svolge se non altro perché non può non essere svolto, da chi sta sul Colle. Per segnalare i limiti di precaria costituzionalità di una data legge. Per smorzare conflitti potenziali. O per lanciare un avvertimento su qualche deriva politica che giudica irrazionale e pericolosa. Solo che lo fa senza intermediari, con contatti discreti e personali. Senza platealmente forzare la mano. Senza l’appoggio di esternazioni pubbliche. Un compito che intende in una chiave più metodologica che contenutistica, lasciando alle forze politiche la determinazione delle scelte di merito.
Si prenda il caso della riforma del Senato, sulla quale è in corso una dura battaglia. Ora, quando si pretende che Mattarella si metta di traverso facendo la parte dell’opposizione (magari anche l’opposizione interna del Pd), si dimentica che di fronte a una legge costituzionale il potere di rinvio di un presidente ha dei limiti precisi, delineati dalla giurisprudenza costituzionale. Limiti assoluti, che riguardano la lesione dei diritti e dei principi fondamentali. E, da ex giudice della Consulta cui sta comunque a cuore la governabilità e un processo riformatore in grado di accompagnarla, lo sa bene. Tutto il resto va lasciato al Parlamento, e così lui fa.
Una filosofia di rispetto dei limiti che il capo dello Stato ha rievocato un mese fa, durante la cerimonia del Ventaglio, chiedendo ai partiti di «non straripare dai propri confini» e di «rispettare le competenze altrui». Lui stesso ne ha fatto una questione di metodo. Perfino nel lavoro di ogni giorno al Quirinale, dove ha volute differenziare le riunioni con i consiglieri tecnici da quelle con i consiglieri politici, riunioni che prima erano quasi sempre congiunte. Beninteso, tra le due équipe non c’è una mancanza d’integrazione, quando serve. Ma se ai primi chiede precise istruttorie tecniche su determinati dossier e ai secondi un parere sulle ricadute politiche, la decisione finale la prende in solitudine. E, sì, in silenzio.