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 2015  settembre 02 Mercoledì calendario

Da «Papa Urbano», è diventato «Cairo Vattene», poi «Braccino», e ora, è finalmente «Mani di Velluto». Le metamorfosi del presidente nei primi dieci anni granata

In principio fu papa Urbano. Apparve sul balcone del Municipio il 2 settembre 2005, dieci anni fa, con in mano un pezzo di stoffa granata che non era ancora una bandiera, sulla coda di un’estate in cui il Toro era morto e risorto con le pezze al sedere, rischiando di finire nelle grinfie di un certo Giovannone, procuratore di infermiere e amico di Lotito che già pregustava di trasformarci nella sua succursale. Cairo era l’ex segretario di Berlusconi, l’editore dei giornali che si leggono dalle estetiste, il figlio di una formidabile tifosa di capitan Valentino che gli aveva trasmesso la passione per il calcio ma non quella per il Toro, se è vero che, nella prima intervista da candidato presidente, alla domanda «Dov’era lei il 16 maggio 1976?» mi rispose: «E chi se lo ricorda? È passato tanto tempo». Come se un tifoso granata nato dopo la guerra potesse dimenticare l’unico giorno della sua vita in cui ha vinto lo scudetto. 


Con i suoi modi azzimati e il suo eloquio da venditore di frigo agli esquimesi appariva lontanissimo dal cliché del presidente ruspante alla Pianelli, che incitava i giocatori a mangiare l’erba e dopo una vittoria rifiutava lo champagne: «Non bevo, sono analcolico». Ma era stata tale la paura di morire lotitiani che lo accogliemmo come un salvatore. Papa Urbano. Ricordo il suo ingresso all’Unione Industriale di Torino per la presentazione di un libro: solcava ali di folla osannante come Mosè le acque del Mar Rosso, però vestito meglio. Le modalità tumultuose della sua presa del Palazzo Granata, l’immediato ritorno in serie A e la contemporanea retrocessione della Juve gli regalarono una mistica eroica di cui finì per essere la prima vittima. Suscitò aspettative che non era in grado di mantenere. Travolto dalla passione popolare e dalla facilità e felicità dei suoi primi passi nel mondo del calcio, papa Urbano si convinse di essere un genio circondato da allocchi. Così sfasciò la squadra della promozione e iniziò a inanellare una serie di errori che il Cairo imprenditore non avrebbe fatto mai. Come ingaggiare vecchie glorie alla Recoba. Come circondarsi di procuratori troppo astuti. Come chiedere pareri su tutto al primo che passava, persino a me. «Ma lei Di Michele lo prenderebbe?». «Per carità, no». «Neanch’io». E invece lo prese, lo spogliatoio si trasformò in un Vietnam, gli allenatori andavano e venivano come criceti sulla giostra, mentre la società era un guscio vuoto, il settore giovanile un’ipotesi e si procedeva all’impronta, facendo e disfacendo squadre fino all’ultima ora del calciomercato. 

Le prime contestazioni
Papa Urbano divenne Cairo Vattene, come intimava la scritta in vernice granata sui muri di una strada di Forte dei Marmi, dove il pontefice in disgrazia aveva la casa delle vacanze. Un amico mi raccontò che Cairo, lungi dal cancellare la scritta, la utilizzava come indicazione stradale: «Arrivate fino a Cairo Vattene, poi girate a destra e…». Se fosse vero, sarebbe una prova del suo proverbiale sangue freddo, che non vacillò nemmeno dopo un’altra retrocessione, preceduta dall’azione di disturbo di un povero ereditiere, Ciuccariello, il fumoso Mister X che minacciava di comprarci e costruire uno stadio da 120mila posti per sessantamila spettatori «così si sta comodi». 
Cairo Vattene mi diede un’intervista nella quale si diceva pronto a vendere il Toro a persone serie. Ho sempre sospettato che bluffasse. Anche perché le persone serie nel calcio non entrano, tranne rare eccezioni e una, in fondo, è proprio lui. Le critiche rimbalzavano sul suo sorriso stereotipato, ma dentro gli facevano male, specie quando venivano da giornalisti tifosi: ci considerava, a ragione, troppo coinvolti. Il fatto che lui lo fosse solo fino a un certo punto mi appariva un suo limite e invece, adesso lo posso dire, è stata la nostra fortuna. Un tifoso del Toro, al suo posto, avrebbe perso la testa. Un tifoso di Cairo, cioè lui, imparò a farla funzionare, dismettendo i panni funesti dell’accentratore per applicare anche al calcio lo schema che aveva fatto la sua fortuna nell’editoria: un direttore anziano ed esperto al comando, in sintonia con un manager giovane e ambizioso. E così, nell’ora più buia della notte granata, l’ennesimo campionato di B seguito all’ennesima retrocessione, Cairo Vattene affiancò Ventura a Petrachi. La leggenda narra che dopo poche ore di ritiro Ventura avesse già preparato le valigie. A fargli cambiare idea, cambiando la storia del Toro, sarebbe stato un colloquio notturno in cui l’ex Papa neanche troppo emerito accettò di fidarsi e affidarsi a chi masticava calcio da una vita. 

La ciliegina del Filadelfia
Dopo quella di Cairo Vattene cominciò l’era di Braccino, il presidente tirchio o avveduto, dipende dai punti di vista, più abile nel vendere che nel comprare. Raggiunse il culmine giusto un anno fa, quando cedette Cerci all’ultimo giorno di mercato e ingaggiò un altro Recoba, Amauri. Ci sentimmo traditi un’altra volta. Braccino sembrava divertirsi a suscitare aspettative per poi affossarle con scelte vagamente autolesioniste. E invece stavolta aveva ragione lui. Arrivarono le vittorie di Bilbao e nel derby, lo scudetto della Primavera, la certezza (si spera) della riedificazione del Tempio: il Filadelfia. «Sta imparando, sta imparando», mi diceva don Aldo. 
Ha imparato, don. Quest’estate Braccino è diventato Mani di Velluto. Con un mercato perfetto, un progetto vero, una squadra giovane e al tempo stesso esperta. A dieci anni da quell’esordio avventuroso sul balcone del Municipio con in mano un pezzo di stoffa granata che non era ancora una bandiera, Cairo ha realizzato la missione che un milione di malati inguaribili gli aveva affidato: riportare il Toro dove lo collocano la storia del calcio e il numero dei suoi tifosi: tra le prime otto società italiane. «Siamo da Europa. Ma quale Europa?» mi ha scritto un fratello di virus dopo il golazo di Baselli alla Fiorentina. Stringo i bulloni del cuore e mi limito a rispondergli: siamo da Toro, fratello. Di nuovo, e finalmente. Il resto, se Mani di Velluto non perde il tocco, seguirà.