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 2015  settembre 02 Mercoledì calendario

L’addio a Manlio Cancogni. Lo scrittore, giornalista, nato per sbaglio nel 1916, ha chiesto di portare le sue ceneri in un piccolo cimitero di Seravezza, per continuare a vedere le amate Apuane. Aderì alla Resistenza, entrò nell’orbita del Partito d’azione, ma avrebbe raccontato quella militanza con divertita modestia: «Facevo dei gran giri in bicicletta, avevo compiti di collegamento più che da partigiano vero e proprio». Poi il giornalismo, nel 1955 firmò per l’Espresso “Capitale corrotta = nazione infetta” un reportage sul sacco immobiliare di Roma rimasto negli annali della professione e poi i libri: «Ho fatto certamente più di quello che mi aspettassi di poter fare. Chi lo immaginava di diventare davvero uno scrittore?»

Ha chiesto di portare le sue ceneri in un piccolo cimitero di Seravezza, per continuare a vedere le amate Apuane. Manlio Cancogni, defilato ma indiscusso protagonista controcorrente della vita letteraria italiana del secondo Novecento, se ne è andato ieri. Due mesi fa aveva compiuto novantanove anni. Lo scrittore e giornalista versiliese ha avuto sempre una cifra inconfondibile: moderato, ma estremista nella sua caparbia volontà di smarcarsi. Dalle mode, dai vezzi degli intellettuali, dai suoi stessi amici. Inflessibile fino a dolorose rotture, che negli ultimi anni rileggeva con una sorta di stupito distacco. Quasi a non voler infondere in quelle scelte nessun furore intellettuale, piuttosto l’ineluttabilità di posizioni che non avrebbe potuto evitare di assumere. Innamorato della libertà come rivendicazione del
singolo, così descriveva alle soglie del centenario la sua bussola esistenziale: «Sono arroganti, cattivi, quelli che di fatto mancano di personalità libera, di una vera individualità. Allo stesso tempo, però, mi è sempre stata antipatica la figura del “ribelle”, quello che dice: io sono io, mi sono fatto da me. Ero individualista, fisiologicamente direi, ma senza gloriarmene troppo». Cancogni era nato a Bologna nel 1916 («per sbaglio» raccontava lui) da genitori versiliesi e aveva vissuto gli anni della giovinezza a Roma, ma sempre guardando alla Versilia rifugio estivo come la terra d’elezione a cui tornare appena possibile. Proprio nei pomeriggi romani dopo il liceo, ma soprattutto sulla ferrovia tra Roma e la costa toscana era nata e maturata la sua grande amicizia con Carlo Cassola. L’avrebbe descritta più tardi, trasfigurandola in uno dei suoi romanzi più belli, Azorin e Mirò, terminato durante i bombardamenti di Firenze del ‘43-‘44. Quel libro è stato definito anche il manifesto del “subliminarismo”, di cui Cancogni e l’autore della Ragazza di Bube erano convinti assertori. Una posizione poetica che vedeva nel “sublimine” la realtà vera da cercare dietro quella sensibile grazie alla letteratura. I due amici ne fecero la loro bandiera e, come racconterà decenni dopo lo scrittore versiliese, consideravano il Joyce di Gente di Dublino l’opera più riuscita per chi si riconosceva in questa ricerca.
Sempre fedele al suo amore per la letteratura, Cancogni visse tutte le sfide della sua generazione, ma a distanza di anni le rileggeva senza lo stesso ardore. O almeno questo pareva quando raccontava della sua partenza per la guerra di Grecia, poi del ritorno a casa e dell’adesione al fronte antifascista. Prima si avvicinò al Partito comunista, ma il distacco fu veloce («l’idea di una società perfetta mi pareva un incubo»). Aderì alla Resistenza, entrò nell’orbita del Partito d’azione, ma avrebbe raccontato quella militanza con divertita modestia: «Facevo dei gran giri in bicicletta, avevo compiti di collegamento più che da partigiano vero e proprio». Nei mesi della Firenze occupata dai nazisti e dai fascisti della banda Carità conobbe Carlo Levi e ne divenne amico.
Fu proprio l’autore di Cristo si è fermato a Eboli a chiamarlo, dopo la Liberazione, alla Nazione del popolo. E Cancogni inizierà così quella carriera giornalistica che lo avrebbe poi portato a scrivere per l’ Europeo, Il Mondo, il Corriere della sera, Il Giornale.
Ma sarà all’ Espresso che firmerà nel 1955 quel reportage “Capitale corrotta = nazione infetta” sul sacco immobiliare di Roma rimasto negli annali della professione: un lucido racconto sull’assalto della speculazione edilizia al tempo del sindaco Rebecchini che partiva dalla descrizione degli immani profitti realizzati con la costruzione del quartiere romano di Vigna Clara. Sempre per l’ Espresso sarà a lungo corrispondente da Parigi, mentre il suo interesse per la politica si andava raffreddando. Nel 1948 nettamente schierato in nome dell’anticomunismo contro il Fronte popolare, passato negli anni Cinquanta al voto senza emozioni per i socialisti, si distaccò progressivamente dallo scontro tra partiti. Ma senza perdere mai l’occasione di prendere posizione su quanto avveniva in Italia, soprattutto nel mondo della cultura. E se già nel 1945 i muri di Firenze si erano coperti di scritte contro di lui dopo un articolo in cui rivendicava i meriti del nozionismo, più tardi avrebbe incrociato il fioretto con l’avanguardia letteraria. Quando gli intellettuali del Gruppo 63 bollarono Bassani e Cassola come delle “Liale” della letteratura, lui si schierò con i due scrittori. E anche su questa polemica tornò nel 2013, in un libro-conversazione con Simone Caltabellota (Elliot), significativamente intitolato Tutto mi è piaciuto. Secondo Cancogni, Bassani e Cassola avevano «sbagliato a prenderla dall’alto, molto, polemizzando come si trattasse di un attentato alla loro maestà... “ma lasciateli fare” dicevo io».
Aveva vinto lo Strega nel 1973 con Allegri, gioventù e il Viareggio nel 1985 con Quella strana felicità, intervallando con lunghe pause la sua produzione letteraria preso com’era da quella giornalistica. Un impegno che toccava lo spettro più ampio, dal racconto degli anni di De Gaulle fino alla ricostruzione delle vicende degli anarchici italiani con una serie sul Giornale di Montanelli, Gli angeli neri, che poi divenne anche volume in libreria. Grande appassionato di sport, di calcio in particolare, iniziò a scriverne sull’ Espresso firmandosi come Emilio Speroni, ma ne fece spesso tema dei suoi romanzi. Così La carriera di Pimlico (1956), dove il mondo dell’ippica serve a leggere in controluce la lotta di chi deve fare i conti con il proprio talento, oppure Il mister (2000), dominato dalla figura dell’allenatore slavo Zoran, poeta calciatore nella Roma del Ventennio, omaggio lampante a Zeman. Tifoso del Bologna, ammiratore del Grande Torino tanto da farsi in bicicletta il viaggio tra la Versilia e Livorno nel ’46 per poter vedere dal vivo la squadra mito dei granata, Cancogni era sempre rimasto ferocemente attaccato al suo tifo anti- Juve. Che non rinnegò neanche quando l’Avvocato lo invitò allo stadio, dopo un articolo in cui celebrava i suoi decenni di antipatia bianconera. Lo scrittore versiliese amava il gesto atletico, quell’unico istante perfetto che sintetizza tutte le potenzialità del campione. E parlando del dribbling dell’attaccante, del pallone che s’insacca dopo un tiro da venti metri, dell’instancabile lavoro del mediano non aveva paura di paragonarli al “gesto” lirico: «Si tratta di “simboli”, di “segni”, di “significazioni”?» si domandò nel ‘67 su La fiera letteraria di cui era direttore. «Tanto peggio. Li amiamo lo stesso. Come amiamo, sì, confessiamo anche questo crimine, la poesia, la parola che ci rivela a noi stessi, l’immagine che inventa la realtà, ci immerge nella corrente della vita, spazza via la noia».
La poesia era un’altra grande passione. Fra i più amati Montale, che frequentò a lungo negli anni Quaranta, e poi Gatto, Giotti, Penna, Betocchi, Luzi, Delfini (con cui litigò “per la sua permalosità”). E Caproni, con cui discuteva di ateismo. Già allora, avrebbe rivendicato poi Cancogni, «mi auguravo l’esistenza di un Dio-registro della verità». Il riavvicinamento alla fede sorprese non poco molti amici, che avevano presenti le sue frequentazioni laiche di decenni. Lui spiegò di aver avuto un ripensamento alla morte del padre, alla fine degli anni Sessanta, ma solo quando la figlia Annapaola se ne andò nel 1993 stroncata da una malattia il percorso divenne manifesto fino all’incontro con Giovanni Paolo II.
Arroccato nella casa di Fiumetto, a Marina di Pietrasanta (dove oggi alle 10.30 saranno celebrati i funerali nella chiesa di S. Antonio), Cancogni ha vissuto sempre accanto all’amatissima moglie Rori, sposata nel ‘43, e a cui era dedicato Sposi a Manhattan del 2005, intessuto di ammirazione per Manzoni. E proprio I Promessi sposi erano una delle riletture preferite, insieme a Pinocchio e a Stevenson. «Riprendo i libri che per me sono stati decisivi» spiegava. Impegnato per anni da una depressione a tratti paralizzante era comunque sereno: «Ho fatto certamente più di quello che mi aspettassi di poter fare. Chi lo immaginava di diventare davvero uno scrittore?».