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 2015  settembre 02 Mercoledì calendario

Viaggio nel laboratorio dell’Eni dove lavorano i 300 uomini che hanno trovato in Egitto un mare di gas. «Hanno tutti l’aria del secchione: dal neolaureato con barba incolta al decano che vede la pensione. Segano in fette millimetriche le carote di roccia di un metro spedite dai pozzi in cilindri d’alluminio, fanno la Tac alle pietre – «molto meglio che in ospedale, perché non si lamentano» – ne alterano la pressione in gabbie d’acciaio per vedere se quando aspireranno il greggio lui si trasformerà in gas, o viceversa, e poi accatastano dati su modelli matematici costruiti per indovinare la trama di un tappeto immenso»

L’ingegner Tiziano Rocco e il conte Guido Bonarelli, ovunque siano, se ne faranno una ragione. Il padre della sismica applicata all’esplorazione padana, l’accademico che nel’44 dall’Ente metano vergava in latino summe geologiche, non sospettavano le diavolerie che tecnologie e scienze applicate offrono oggi ai rabdomanti dell’oro nero. Mandando in pensione il Vecchio Esploratore con piccozza e bastone magico. Specie all’Eni, cercare idrocarburi è ormai uno sport di squadra, corale. Chi ha appena scoperto quel cilindro da 630 metri di rocce al metano al largo dell’Egitto non ha un nome. Siamo all’Esploratore collettivo, l’Esploratore social, che mastica le pietre a modo suo, più in laboratorio e sulle reti aziendali che non a bocca di pozzo. Tanto, ormai, «perfino una torre di perforazione negli angoli più sperduti si può guidare in remoto dalle sale di San Donato». Anzi si guida meglio, così i tecnici di laboratorio analizzano in tempo reale le caratteristiche dei cuttings (i residui dello scalpello), o i dati degli strumenti calati nel pozzo. Anche la notte; anche a Natale. Tutto meno affascinante forse: certo più efficace, economico e di soddisfazione per la compagnia italiana, che negli ultimi anni ha cambiato le strategie esplorative e da Cenerentola delle major ha preso il passo delle migliori, grazie a un tasso di scoperte e di risorse «al top dell’industria», come ripete l’ad Claudio Descalzi.
La grande scoperta egiziana rappresenta un successo dove le rivali avevano fallito bucando 10 pozzi a vuoto, e mostra che la strategia sparagnina dell’Eni funziona. Descalzi, capoazienda da un anno ma mangiatore di pietre da 34, lo predica da mesi: «Torniamo sulle piste che conosciamo meglio usando nuove tecniche ed esperienze». È anche una cucina intelligente degli avanzi, in tempi di magra in cui il prezzo del barile è sceso ai minimi da sei anni. Fine dei progetti faraonici, si torna alle ricerche di oli e gas convenzionali, vicini a impianti già fatti, commercializzabili in tempi rapidi. Un piccolo errore di previsione o di progetto può costare miliardi tra penali, spese extra, profitti persi. Come Eni ha imparato sulla pelle a Kashagan, tra i ghiacci del Caspio.
Così al centro ricerche Eni di Bolgiano (frazione di San Donato) i 300 fisici, matematici, chimici, geologi ingegneri sono stati strigliati a dovere. Hanno tutti l’aria del secchione: dal neolaureato con barba incolta al decano che vede la pensione. Segano in fette millimetriche le carote di roccia di un metro spedite dai pozzi in cilindri d’alluminio, fanno la Tac alle pietre – «molto meglio che in ospedale, perché non si lamentano» – ne alterano la pressione in gabbie d’acciaio per vedere se quando aspireranno il greggio lui si trasformerà in gas, o viceversa (a volte la mutazione è triplice, tanto sono fluidi complessi), accatastano dati su modelli matematici costruiti per indovinare la trama di un tappeto immenso. Quello su cui da qualche parte, qualche chilometro dal suolo, sono incastrate le memorie dei microorganismi che milioni di anni fa sono morti, poi sono sprofondati sempre più giù, degradati da calore e pressione fino a diventare petrolio o gas. La Grande ricerca avviene soprattutto qui, in un asettico capannone di un solo piano. «Le domande che ci facciamo a Bolgiano sono quattro – racconta Nicola Bona, entrato qui nel 1992 per una tesi in fisica con una borsa di studio dell’Agip e oggi responsabile dei laboratori di ingegneria petrolifera –. La prima è se in una roccia ci sono idrocarburi, la seconda quanti ce ne saranno, la terza quanti ne potremo estrarre, la quarta quanto rapida sarà l’estrazione». È un cimento. Dimenticate Zio Paperone e la caverna sotterranea con la pozza nera che trivellata sgorga. Il giacimento è un pieno, non un vuoto. È una granita di roccia in cui servono cannucce incredibili per bere.
«Quel che cerchiamo è disperso nei pori micrometrici di alcune rocce porose, sovrastate da altre impermeabili che hanno intrappolato gli idrocarburi impedendo che risalissero al suolo evaporando», spiega Bona, uno che t’immagini alla lavagna a risolvere formule arcane. Solo che né lui né altri possono vedere il giacimento. Solo, al massimo sentire la roccia a cupola che lo imbriglia, usando la sismica delle rifrazioni sonore. A quel punto, rabdomante davvero, l’Esploratore collettivo prova a inventarsi il sottosuolo, aiutato da una mole di dati che – pure – sono una frase nel libro del mondo. «Il giacimento di taglia media – spiega Bona – è una scatola di pietra di 10 chilometri di lato per 100 metri di spessore. Noi possiamo conoscerlo solo attraverso i pozzi. Se facciamo 10 pozzi nella scatola, il rapporto tra volume e quantità conoscibile è un decimo di milionesimo. È come avere un tappeto immenso e doverne ricostruire trama e colori vedendone solo quattro punti. Questo è il lavoro di geologi e ricercatori».
Per immaginare gli altri punti, e stimarne il potenziale economico, l’Esploratore collettivo crea i modelli probabilistici. «Cerchiamo di minimizzare i rischi di fallimento, perché le esplorazioni in loco costano milioni, e l’accelerazione dei tempi sugli studi è il più drammatico cambiamento portato dall’innovazione tecnologica – spiega Andrea Ortenzi, responsabile tecnico dei laboratori di geologia a Bolgiano, che è qui da 28 anni a parlare alle pietre –. La componente umana resta fondamentale, perché con tutte le tecnologie del mondo sono gli uomini a decidere dove scavare, quando fermarsi e armare il pozzo, come arginare i rischi di perdita dei fluidi. Una volta però il lato umano era davvero tutto: c’erano questi vecchi guru che avevano in testa tutto un giacimento, al massimo con qualche foglio nei cassetti. Poi andavano in pensione o peggio cambiavano azienda, e addio alle preziose informazioni». Per ovviare, da un paio d’anni Eni ha introdotto il Knowledge management system, descritto come «un Facebook interno» dove i tecnici sparsi per il mondo si scambiano esperienze di cantiere e di laboratorio, senza gerarchie. Anche questo accorcia i tempi: i vecchi dicevano ai giovani, «devi macinare un po’ di pietre». Come le cipolle. Ma ormai è un macinare veloce e virtuale, che avviene sulle chat, nelle sale di simulazione in 3D dove si azionano trivelle e impianti in scala 1 a 1, su software che risputano dati a raffica per unire i puntini e disegnare la trama del tappeto segreto. Tornando a San Donato, mentre la pausa pranzo riversa per strada donne e uomini variopinti nelle categorie grisaglia, impiagato, praticone, anche l’Eni somiglia a un grande carotaggio. Una fetta di italiani che ogni giorno va a caccia di piante, coralli e animali antichi.