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 2015  settembre 02 Mercoledì calendario

Per quanto ancora l’Italia dovrà sopportare le lezioncine degli euroburocrati? Bruxelles fa sapere di essere contraria all’abbattimento di Imu e Tasi, ma prima di dire no l’Europa dovrebbe aspettare di vedere che cosa davvero il governo italiano propone. Giannino: «E dunque basta confusione a confusione, ora che l’Italia dopo tanti disastri finalmente inizia a muoversi. Perché se ancora vi fossero dubbi, le tre serie di dati diffuse ieri dall’Istat significano in sostanza quattro cose. Primo: la ripresa italiana inizia a prendere corpo. Secondo: bisogna tenere la guardia alta, perché dal mondo vengono segnali di frenata. Terzo: sulle due premesse, il governo deve imperniare la legge di stabilità. Quarto: le priorità devono essere chiare»

Per quanto ancora l’Italia dovrà sopportare le lezioncine degli euroburocrati? Ieri le agenzie di stampa hanno rilanciato fonti anonime di Bruxelles contrarie all’abbattimento di Imu e Tasi annunciato dal premier Renzi. Per favore, piantiamola lì. Purché i conti tornino, è piena facoltà di un governo scegliere la politica fiscale più appropriata. Del resto, l’aumento della tassazione sulla casa ha prodotto solo aumenti della propensione al risparmio invece che ai consumi, deflazione dei valori immobiliari, crollo dell’edilizia, strage di imprese e occupati del settore.
Il governo ha detto di avere un piano complessivo che parte dalla tassazione sulla casa, per investire e comprendere triennalmente Ires, Irap e Irpef. Ebbene, prima di dire no l’Europa come tutti noi aspetti di vedere che cosa davvero il governo italiano propone.
E dunque basta con queste lezioncine che hanno il solo scopo di aggiungere confusione a confusione, ora che l’Italia dopo tanti disastri finalmente inizia a muoversi. Perché se ancora vi fossero dubbi, le tre serie di dati diffuse ieri dall’Istat significano in sostanza quattro cose. Primo: la ripresa italiana inizia a prendere corpo. Secondo: bisogna tenere la guardia alta, perché dal mondo vengono segnali di frenata. Terzo: sulle due premesse, il governo deve imperniare la legge di stabilità. Quarto: le priorità devono essere chiare.
Che la ripresa assuma qualche decimale di punto in più e non in meno è solo positivo. Non c’è niente di più sciocco di una divisione politica sui miglioramenti del Pil stimato nel primo e secondo trimestre del 2015.
L’occupazione aumenta di 180 mila unità a fine giugno 2015 sull’anno precedente, e di 235 mila unità a fine luglio. È ancora presto per stimare quanto si debba alla decontribuzione per tutti i nuovi contratti, e quanto al Jobs Act. Piuttosto, il fatto è che gli occupati nei primi due trimestri dell’anno diminuiscono sul 2014 tra i 15 e i 30 anni quasi del 4%, e quasi del 2% sotto i 40 anni, mentre aumentano quasi del 6% sopra i 50 anni. Ci sarà chi dice che ciò dimostra che bisogna abbassare l’età pensionabile, innalzata verticalmente dalla legge Fornero, per far spazio ai giovani.
Al contrario, è un bene che l’occupabilità salga sopra i 50 anni, e il punto è attivare il Jobs Act anche per le politiche del lavoro – la parte sinora mancante – per i giovani. I rapporti di lavoro a tempo parziale salgono in percentuale più di quelli a tempo pieno: segno che le imprese ancora non ci credono troppo, alla ripresa. Quanto al Pil, è un bene che vi sia una ripresa della domanda interna e un buon andamento dei servizi, cioè delle componenti che più soffrivano nel 2013 e 2014.
Secondo: tuttavia, non bisogna illudersi ma tenere la guardia alta. Non solo al pensiero dell’abisso da recuperare di prodotto, reddito e occupati persi dal 2008. Basti pensare che la disoccupazione italiana, scesa a poco più del 12% a luglio, va comparata al 4,7% della Germania, al 5,8% dell’Austria, al 6,8% Olanda, o 7,4% della Svezia. ?Ma perché i dati stessi di luglio ci dicono che dal mondo si riverberano sull’Italia segni di frenata. Nel mercato del lavoro, solo a luglio gli inattivi sono aumentati di un terzo di tutti quelli diminuiti a fine giugno 2015 rispetto a un anno prima. L’indice degli acquisti del manifatturiero italiano a luglio è il secondo europeo dopo quello olandese a quota 53,8 (sopra 50 è crescita, sotto contrazione), ma è il più basso in 4 mesi, e l’indice è al ribasso praticamente in tutte le economie dell’euroarea, tranne che per la Germania. Vanno aggiunto gli effetti – oggi ancora imperscrutabili – delle conseguenze sul Pil italiano della frenata e dell’instabiità cinese, delle ripercussioni sul commercio mondiale e della crisi dei paesi emergenti, tutti fattori che colpiscono componenti del nostro export. E le attese al rialzo dei tassi d’interesse americani da parte della Fed. Nei dati Istat, il contributo all’aumento del Pil degli investimenti delle imprese italiane ancora praticamente non si avverte. L’instabilità resta sovrana, e bisogna tenerne conto.
Terzo: di queste lezioni, il governo deve tenere conto nella sua prossima legge di stabilità e manovra pluriennale. Gli incentivi agli investimenti e alla ricerca delle imprese vanno potenziati. Nel primo semestre 2015 l’aumento della domanda interna viene soddisfatto più da aumento dell’import che dall’accresciuta offerta delle imprese italiane, perché hanno perso competitività in questi anni non pareggiata dal deprezzamento dell’euro dell’ultimo anno.
Ciò significa che occorre incentivare i contratti aziendali di produttività, sempre che non si voglia pensare a una vera legge di attuazione dell’articolo 39 della Costituzione sui diritti ma anche finalmente sui doveri del sindacato. La decontribuzione ai nuovi contratti di lavoro – che nel 2016 e 2017 varrebbe 5 miliardi di euro l’anno – va concentrate sull’occupazione aggiuntiva rispetto agli organici 2015, non a tutti nuovi contratti. Il tutto andrebbe inquadrato in una manovra triennale organica, in cui le diminuzioni di pressione fiscale sui diversi cespiti – valutati per rispettivo maggior apporto all’aumento dell’output potenziale italiano – trovassero una quadra rispetto ai tagli di spesa necessari a un saldo di bilancio capace di ottenere l’ok europeo, perché appunto coerente a un quadro di riforme volte a credibili aumenti della crescita.
Quarto: con l’Europa, la partita è aperta. Il governo sicuramente presenterà la nota di aggiornamento al Def base per la prossima legge di stabilità – prima che siano noti i dati del terzo trimestre 2015. E dunque alzerà le stime di crescita 2015 e 2016, magari per l’anno prossimo prevedendo anche un più 1,6-1,7%, con entrate fiscali e miglior saldo conseguente. Ma c’è un rischio, a comportarsi così sull’onda dell’ottimismo. Nessuno può sapere davvero quanto, nel prossimo futuro, dalle debolezze mondiali potrebbe aggiungersi a quelle italiane. Meglio restare prudenti sulle stime – come, gli va dato atto a questo punto, è stato il governo sul 2015 – e presentare in parlamento e in Europa una manovra triennale con tre caratteristiche. Veri e rilevanti tagli di spesa. Se del caso, dichiarati e credibili aumenti del deficit rispetto a quanto l’anno scorso concessoci nel 2016 e 2017, e cioè l’1,8% del Pil. Ma ferrea credibilità nel programma triennale della diminuzione complessiva della pressione fiscale per più crescita.