Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  settembre 02 Mercoledì calendario

Le famiglie spendono e le aziende investono. Così riparte la crescita. Perché sono le imprese, e non i governi, a dare il lavoro. Certo lo Stato deve creare le condizioni favorevoli, ma se le aziende non investono ora, in questo contesto, rischiano di non avere futuro. Confindustria si attende per i prossimi mesi una conferma della crescita degli ordini. Ma nessuno canta vittoria perché c’è la crisi del gigante cinese che non si sa ancora dove potrà portarci

C’entra – un po’ – il Jobs act. Ma c’entrano soprattutto la domanda interna e la ripresa degli investimenti da parte degli imprenditori in un contesto internazionale favorevole e forse irripetibile fatto di deprezzamento del petrolio, del quantitative easing di Mario Draghi, del rafforzamento del dollaro rispetto all’euro. La mini-crescita del Pil e dell’occupazione italiani nel primo semestre dell’anno si spiega così. Ora Palazzo Chigi dà per acquisito un tasso di crescita per il 2015 dello 0,7% (come stimato nel Def, Documento di economia e finanza) ma ritiene realistico un obiettivo superiore: + 0,8/+0,9%. Decimali certo, ma a un passo dall’1% che con la doppia recessione che abbiamo alle spalle rappresenterebbe una svolta, tanto più che, diversamente dal passato, non è più necessaria una crescita superiore al 2% perché si muova verso il basso il grafico relativo al tasso di disoccupazione. E per il 2016 la stima dell’1,4% del Pil è destinata ad essere ritoccata all’insù (1,6%?) fin dalla prossima nota di aggiornamento del Def attesa per il 20 settembre. Pure di questo hanno parlato ieri il premier Matteo Renzi e il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan in una riunione serale a Palazzo Chigi convocata per avviare la predisposizione della legge prossima legge di Stabilità da almeno 25 miliardi di euro. Più crescita vuol dire più spazio di manovra per il rispetto dei vincoli europei. Più flessibilità. Questa è la vera partita che dovrà giocare Renzi. Aver rispettato le previsioni gli dà qualche carta in più e gli attribuisce più credibilità. Ma la bocciatura che, per quanto informale, è arrivata ieri da Bruxelles all’annunciato piano di riduzione delle tasse sulla casa (la Commissione europea chiede di tagliare le tasse sul lavoro e le imprese) è un primo segnale non proprio amichevole. «Sono le burocrazie», commentavano ieri con fastidio gli uomini più vicini al premier. Nel secondo trimestre dell’anno l’economia italiana è andata praticamente alla stessa velocità di quella della Germania (+ 0,3% noi, +0,4% i tedeschi). Non accadeva dal 2005. Anche se poi se si guardano i dati tendenziali (cioè il raffronto annuale tra il 2015 e il 2014) il divario con i nostri concorrenti resta marcato: +2,6% la Gran Bretagna, +2,3 gli Stati Uniti, +1,6 la Germania, + 1 la Francia. Le economie dell’area dell’euro in un anno sono cresciute mediamente dell’1,2%, l’Italia dello 0,7%, quasi della metà. È questo il nostro gap. Durante la Grande Crisi il nostro potenziale di crescita è stato abbattuto. Abbiamo perso circa 500 mila imprese, più di un milione di posti di lavoro, la nostra capacità produttiva si è ridotta del 25%. Il Fondo monetario ha stimato che ci vorranno vent’anni per ritornare ai livelli di disoccupazione pre-crisi. È una strada tutta in salita e siamo solo nella fase iniziale nella quale non si può non rilevare il riassorbimento dei lavoratori in cassa integrazione con un calo di oltre il 30% delle ore autorizzare insieme a quello delle ore effettivamente utilizzate (dal 42% del 2014 al 38%).Dunque gli investimenti. È qui – come sempre – la chiave, e l’origine, della ripresa. Perché sono le imprese, e non i governi, a creare il lavoro. Ai governi spetta il compito di disegnare un contesto favorevole, le famose riforme strutturali (quella del mercato del lavoro, per esempio), ma anche interventi più modesti come la cosiddetta riedizione della “legge Sabatini” che ha incentivato sul piano fiscale gli investimenti in macchinari, impianti, beni strumentali.Nel primo trimestre dell’anno (quello precedente all’indagine di ieri) gli investimenti sono cresciuti dell’1,5% rispetto al periodo precedente. Nel Bollettino economico di luglio la Banca d’Italia ha parlato di una «forte accelerazione degli investimenti ». Non succedeva dal 2008. Tra il 2007 e il 2014 – ha calcolato il Centro studi della Confindustria – gli investimenti fissi lordi si sono contratti del 30% e la loro quota sul Pil è scesa dal 21,6% al 16,9%. È stato un tracollo. Il ritorno (debole) degli investimenti è legato ad un ripresa (debole) della domanda interna. I dati di ieri dell’Istat segnalano da una parte una leggera frenata (-0,3%) degli investimenti in termini congiunturali (trimestre su trimestre), proprio perché c’era stato il micro-boom del trimestre precedente ( dovuto soprattutto agli acquisti di mezzi di trasporto con un +28,7%), ma una crescita altrettanto lieve sull’anno (+0,3%). Se non investono ora, in questo contesto, le aziende rischiano di non avere futuro. Confindustria si attende per i prossimi mesi una conferma della crescita degli ordini. Ma nessuno canta vittoria perché c’è la crisi del gigante cinese che non si sa ancora dove potrà portarci.