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 2015  settembre 01 Martedì calendario

L’uomo-ingranaggio, il migrante che si è incastrato nel vano motore dell’auto mimetizzandosi così bene da sembrare una guarnizione delle parti meccaniche. Ma c’è anche chi, per ricominciare a vivere, si chiude in una valigia, chi s’infila in un copertone o si nasconde sotto la scocca un Tir. Roba che ricorda i treni per Auschwitz, quelli che inghiottivano vivi per rigettare, tante volte, cadaveri

Quanti centimetri possono mai passare fra un radiatore, una batteria, uno spinterogeno? Abbastanza per ficcarci dentro tutta la disperazione di una speranza: e se ci sta quella, allora ci deve stare anche il corpo dell’uomo che la insegue come la vita, a costo della vita. La fotografia scattata dalla Guardia Civil non riesce a essere solo il documento forensico di un’illegalità: nella sua banalità tecnica di verbale visivo d’una perquisizione, questa foto trasmette lo stesso l’incredulità, se non proprio la sorpresa, alla vista di un uomo-ingranaggio, così permeato, aderente, combaciante al vano motore dell’auto che al primo sguardo quasi non lo vedi, lo scambi per un’imbottitura, una guarnizione. Ed è proprio così che vorrebbero diventare, metamorfizzarsi i migranti che tentano di forzare la frontiera di Ceuta, parti di motore, di carrozzeria, oggetti, pezzi di ricambio… Lo fanno da anni ormai, infatti far aprire il cofano è diventata una routine doganiera, di foto come questa bastano cinque minuti di ricerca sul Web per trovarne a decine, ma loro ci provano lo stesso, i migranti, nell’illusione di trasformarsi per miracolo in ferro e caucciù, in olio e benzina, di mineralizzarsi, di disumanizzarsi almeno per un’ora, due ore, quel che serve per passare la frontiera che separa il niente dal qualcosa.
Un vuoto, una cavità meccanica che viaggia vuota e va, beata lei, dove a te non permettono di andare, che progetti impossibili fa venire agli uomini per i quali viaggiare è proibito? Sono fotografie irreali, queste degli smontaggi alla frontiera, sembrano grotteschi collage, c’è un uomo che esce dal cruscotto, un uomo intero, lì dove ti sembra possano starci solo gli occhiali scuri e la biro, c’è una mano che spunta dalla feritoia dell’autoradio, l’automobile in queste fotografie diventa un mostro meccanico- organico, come in un film dell’orrore. Ma cosa diremmo allora se vedessimo le foto che non ci fanno vedere, se mai ci sono, dei ragazzi che abbracciano il carrello di un aereo che se li porta su, su, fino all’asfissia, o allo schiacciamento? Eppure foto così, che oggi ci arrivano in tempo reale, che il motore non si è ancora raffreddato, per dire, le abbiamo già viste. No, non solo dalla frontiera fra Messico e Usa, non solo da tutte le altre frontiere invalicabili della globalizzazione asimmetrica che vi vengono in mente. Le abbiamo già viste nei musei, nei libri, in vecchi album in bianco e nero. Siete stati a Berlino? Non si scappava dall’Est all’Ovest saltando di corsa il filo spinato, come riuscì a fare il soldato Conrad Schumann quando ancora il Muro non c’era. Si scappava nascosti, nei bauli delle macchine, ripiegati come Houdini in valigione di pelle. Ma anche in mille altri modi, i più fantasiosi e perfino tragicomici: nel cilindro di un grande rocchetto per cavi elettrici, nella pancia di una mucca finta destinata a qualche fiera.
Stare immobili, ripiegati in una cavità, per poi uscire e vivere, cosa vi ricorda questo? Il piccolo Abu, ivoriano di otto anni, nel maggio scorso fu nascosto nell’utero di una valigia, il suo orologio biologico riportato indietro fino alla gestazione, per farlo rinascere dove la vita è migliore: lo ha tradito, proprio a Ceuta, uno scanner, come fosse un’ecografia perinatale. Un’altra foto, presa a Melilla, mostra un bambino acciambellato in una specie di uovo metallico, rotto in cima come quando nasce il pulcino.
Ma una cavità in cui ci si comprime per non rinascere, per andare a morire, invece cosa vi ricorda? Erano i treni per Auschwitz che inghiottivano vivi per rigettare, tante volte, cadaveri. Le fotografie del camion fermo nell’autostrada austriaca A4 le avete viste, vero, ma quella dell’apertura del portellone posteriore forse no, quei corpi come fusi uno sull’altro, povera materia umana: quel camion abitualmente trasportava carne. Non lo puoi sapere, quando entri nella pancia del cavallo di Troia, se alla fine sarà vittoria, o morte.
Alle frontiere, i doganieri si sono attrezzati. Non hanno mica più solo gli specchietti per scoprire sotto i camion quelli aggrappati alla scocca. Hanno rilevatori termici, o di vibrazioni. Senza aprire il camion, o il cofano, lo auscultano. Sanno benissimo che un uomo, se cerca disperatamente la vita, può sforzarsi quanto vuole di trasformarsi in un pezzo di metallo o di gomma, ma c’è una cosa che non può fermare: è il suo cuore.