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 2015  agosto 31 Lunedì calendario

Addio a Oliver Sacks, l’uomo che scambiò la scienza per poesia. Il grande neurologo e autore di bestseller, da Risvegli a Allucinazioni, era malato di cancro. Ma anche se si descriveva ormai come «mezzo sordo, mezzo cieco e mezzo zoppo», la sua morte, annunciata, ci ha colto impreparati

Confesso che la notizia della morte di Oliver Sacks mi ha colto impreparato. Non perché non avessi letto i suoi recenti articoli sulla malattia terminale che gli era stata diagnosticata, ma perché alcuni indizi mi lasciavano sperare che la sua fine non fosse così vicina. Ad esempio, compiendo ottantadue anni a luglio, aveva detto di temere che non sarebbe arrivato al suo «compleanno al polonio»: l’ottantaquattresimo, cioè. E si poteva immaginare che questo significasse che i dottori gli avevano dato la speranza di vedere l’ottantatreesimo, «al bismuto». Sacks aveva infatti l’abitudine di festeggiare i compleanni,
suoi e altrui, con regali legati all’elemento chimico corrispondente all’età. Questa era una testimonianza del suo amore per la tavola periodica degli elementi, che gli spettatori del film Risvegli (1990) ricorderanno di aver visto in evidenza sul muro della camera del dottore interpretato da Robin Wiliams, e basato su di lui. Una copia formato tascabile della tavola la teneva sempre nel portafoglio, e me la fece vedere orgoglioso una volta che ne parlammo. Un’altra stava sulla tenda della doccia nel bagno del suo studio. E alle pareti delle varie stanze c’erano “orologi chimici”, con le ore indicate non da numeri, ma dai simboli dei corrispondenti elementi.
La chimica era il suo vero amore, infatti. Se n’era innamorato da ragazzo nei modi descritti in Zio Tungsteno (2001), che aveva appunto come sottotitolo “memorie di un’infanzia chimica”: forse il suo libro più originale, che alterna capitoli autobiografici ad altri di storia della chimica. Come mi disse una volta il suo grande amico Roald Hoffmann, premio Nobel per la chimica, al quale quel libro era dedicato, non ci sono altri esempi di quel genere scientifico-letterario, a parte forse Il sistema periodico di Primo Levi (1975). E non lo sono certo Le affinità elettive (1809) di Goethe, che sarà anche stato un gran letterato, ma ogni volta che parlava di scienza avrebbe fatto meglio a tacere. Il fatto è che a Goethe mancava una qualità che Sacks possedeva e ammirava: la professionalità, stimolata dalla modestia e acquistata con il sudore.
Ad esempio, una volta mi raccontò ammirato che, prima di recitare in Risvegli, Robert De Niro passò vari giorni nell’ospedale psichiatrico dove Sacks lavorava, per studiare da vicino il comportamento dei malati catatonici. E una sera a cena, chinandosi per raccogliere il tovagliolo che gli era caduto, Sacks notò che l’attore teneva i piedi storti, come se fosse già abbandonato inerme su una sedia a rotelle.
Anche lui aveva la stessa professionalità, quasi maniacale. Nel suo studio mostrava orgogliosamente gli scaffali che contenevano le versioni originali dei suoi libri, spesso tre o quattro volte più lunghe dell’edizione a stampa: a testimonianza di un metodo di scrittura “per riduzione”, alla Hemingway, che salva e pubblica soltanto la punta di un iceberg sommerso e scartato. Un giorno che gli parlai di un mio libriccino su Darwin, scritto dopo aver letto le opere principali del grande naturalista, lui mi regalò una copia dell’articolo I fiori di Darwin (2008), che aveva appena terminato per la New York Review of Books, e mi fece vergognare indicandomi un’intera scrivania traboccante dei misconosciuti libri di Darwin sull’argomento, che per l’occasione aveva letto da cima a fondo.
Molti dei suoi libri prendevano spunto addirittura da una conoscenza personale delle malattie trattate, forse stimolata da una certa dose di ipocondria. Così sono Emicrania(1970), Su una gamba sola (1984), L’occhio della mente ( 2010) e Allucinazioni ( 2012), che uniti a Vedere voci ( 1990) e L’isola dei senza colore (1996) costituiscono una specie di enciclopedia universale dei sensi e delle loro disfunzioni.
Ma le opere che hanno raggiunto il pubblico più vasto sono i casi clinici descritti come se fossero racconti letterari, in uno stile che aveva pochi predecessori, a parte forse William James, ma ebbe molti successori, a partire da Vilayanur Ramachandran. Si tratta, oltre che di Risvegli (1973), soprattutto de L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello (1985), che divenne un’opera di Michael Nyman (1986) e una pièce teatrale di Peter Brook (1993). Queste opere, unite alle precedenti, hanno fatto di Sacks un vero fenomeno mediatico. Molti anni fa Sacks e Hoffmann combinarono i rispettivi poteri di attrazione e misero in piedi a New York un “caffè scientifico” al Greenwich Village. Da allora, una sera al mese scienziati e umanisti si incontrano per sentire una conferenza- spettacolo su un tema a cavallo tra le due culture. Ricordo che una sera, alla cena dopo l’evento, chiesi alla persona vicino a me chi fosse il signore coi baffi che stava parlando all’altro lato del tavolo. La risposta fu: «Boh, qualche premio Nobel». Si trattava effettivamente del biologo Harold Varmus, e poiché c’era anche Hoffmann, ne approfittai per domandare se secondo loro le leggi della fisica fossero sufficienti a determinare la struttura geometrica tridimensionale delle molecole: l’immediata risposta del primo fu «ovviamente sì», e l’altrettanto immediata risposta del secondo «ovviamente no», con gran divertimento dei presenti, Sacks compreso.
In realtà, mentre Hoffmann era sempre presente, Sacks partecipava raramente. A parte i suoi impegni, evitava gli incontri pubblici anche per la sua proverbiale timidezza, che unita alla patologia incapacità di riconoscere le facce lo metteva a disagio di fronte alla gente. Ricordo che la prima volta che lo incontrai, il 25 settembre 2005, lui stava appunto defilato e quasi spaurito, e fu impacciato nel parlare con uno sconosciuto. L’ultima volta è stata ad agosto dello scorso anno, quando ancora non sapeva di avere il cancro, ma si descriveva ormai come «mezzo sordo, mezzo cieco e mezzo zoppo». Gli dissi che avevo appena letto Allucinazioni, e mi sarebbe piaciuto ci fossero stati più riferimenti religiosi nel libro. Lui rispose che in genere evitava quel tipo di argomenti sensibili, ma non aveva potuto trattenersi dallo stroncare il libro del neurobiologo Eben Alexander sulle sue supposte esperienze di “quasi morte”, nell’articolo Vedere Dio nel terzo millennio(2012).
Quando gli chiesi se avrebbe avuto voglia di tornare in Italia, mi rispose che gli sarebbe piaciuto andare all’acquario di Napoli. Ma non come uomo, bensì come pesce: con i suoi problemi di deambulazione, di vista e di udito, sarebbe stata una liberazione. E scherzava solo in parte, visto che nuotava ancora per un paio di chilometri nell’Hudson. Sul divano aveva un centrino con un polpo ricamato, e quando gli chiesi spiegazioni ricordò che i polpi hanno 5 miliardi di neuroni, a fronte dei nostri cento miliardi, e sono animali intelligenti: per questo aveva smesso di mangiarli, insieme a seppie e calamari.
Gli ho scritto l’ultima volta il 20 agosto per ringraziarlo del pezzo che era uscito quella mattina su Repubblica, e più in generale per gli articoli sulla sua malattia. Gli dissi che mi sembravano ancora più pregnanti degli scritti di Lucrezio o Marco Aurelio, perché riuscivano a combinare il loro epicureo o stoico coraggio nei confronti della morte con il suo appassionato amore per la vita. E azzardai la previsione, che qui ripeto, che possano diventare il suo contributo più significativo alla nostra cultura, così incapace di affrontare la morte.