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 2015  agosto 31 Lunedì calendario

Ultime dalla periferia di Kirkuk. Adriano Sofri in viaggio nei campi di battaglia del Kurdistan, tra l’avanzata dei peshmerga, il ritiro del uomini di al Baghdadi e i kamikaze jihadisti che si fanno esplodere per non perdere troppo terreno. Un giorno in guerra contro il Califfato

Il campo di battaglia è vasto: alla fine i curdi avranno strappato al sedicente Califfato –Daesh- 250 km quadrati, e una dozzina di villaggi. È il 26 agosto, mercoledì. Siamo a 40 km a sud di Kirkuk, oltre Daquq, sulla strada per Bagdad, lontana a sua volta meno di 200 km. L’avanzata dei peshmerga comincia prima dell’alba. Gli F16 hanno già preso di mira le postazioni di Daesh, e continueranno nel corso della giornata. I primi ad avanzare sono i blindati leggeri delle forze speciali, l’ “Antiterrorismo”, spetta a loro aprire la strada e maneggiare il pericolo principale, le mine di cui è disseminata: una ogni 15 metri, circa! Conto cinque carri armati –“T55 della Guerra mondiale, e T72 della fu Guardia di Saddam…”- ed è l’esplosione di una grossa mina a fare le prime due vittime curde proprio fra i carristi. Daesh ha ritirato da questo versante l’artiglieria pesante sofisticata di cui si impadronì grazie alla rotta irachena a Mosul, e ricorre soprattutto ai mortai, alle mine –centinaia- alle autobomba suicide e ai cecchini, mentre il grosso si ritira verso Ryadh e Hawidja. Il morale di Daesh sul fronte curdo è al punto più basso. Ad Abu Zarga hanno lasciato in una casa-cantina del capo villaggio 50 kg di TNT, una fabbrica di mine. Le collocano nei frigoriferi delle case, accanto alle bombole, sotto i divani... “Le chiamiamo trappole per i gonzi”. Esplodono con un filo a strappo, o coi telefoni: la copertura è tagliata per impedire che se ne servano come telecomandi. Le autobomba sono più esattamente micidiali vetture corazzate alla buona, per neutralizzare il fuoco avverso. Alla fine della giornata potrò vederle da vicino, col loro effetto Mad Max. (Così a Ramadi, giovedì, un jihadista suicida tedesco ha ucciso due generali, uno arabo iracheno e uno curdo, e parecchi soldati). Si contano già, dalla parte curda, parecchi feriti. I più gravi vengono portati fuori dal fuoco e caricati da un elicottero, gli altri dalle ambulanze. La battaglia era annunciata: non c’è segretezza militare, qui. Non solo perché molti giovani combattenti non rinunciano a mettere su
Facebook foto e racconti, e perché la popolazione largamente mista dell’uno e dell’altro lato favorisce l’intelligence reciproca di infiltrati; soprattutto perché i curdi preavvisano i villaggi, evacuati in tempo dagli abitanti. In un villaggio un gruppo di donne e bambini arabi si consegnano ai peshmerga: gli uomini vanno via con Daesh. Gli arabi sunniti locali qui, dove i
foreign fighters sono rari, sono il nerbo jihadista, più che per un’adesione fanatica, per il terrore della ferocia delle milizie sciite: ma sono inesperti e mal motivati. Un contadino arabo suicida alla guida del trattore imbottito di esplosivo viene fermato in tempo dai tiratori curdi. L’avanzata è veloce, a costo di lasciarsi alle spalle postazioni di cecchini e rinviare la perquisizione delle case. In una casa bombardata che era la base dei miliziani neri è rimasta una dozzina di cadaveri. L’avanzata è profonda una ventina di km: al-Tamor, Albo Shehab, al-Samaka al-Kabira, al-Saghira, al-Riyanh, al-Zerka, al-Tabj, al-Tar… Mentre fotografo –senza obiezioni, i militari curdi sanno che se sono lì è perché sono stato autorizzato, e sono cordialissimi – dall’equipaggio di tre pick-up gremiti di armati mi gridano “No picture!” È così che faccio la conoscenza dei boots- on-the-ground americani, uomini non giovanissimi col fisico del ruolo, 4 o 5, direi, gli altri sono curdi che li scortano. Cancello le loro foto: non credo che siano preoccupati di essere visti sul terreno delle operazioni, quanto di essere esposti come bersagli. L’Is ha appena pubblicato un elenco di nomi di piloti. I miei bruschi americani sono i responsabili delle comunicazioni fra terra e cielo –qualcuno mi dice che ci sono anche, con gli stessi compiti, due francesi, io non li ho visti. Stanno rientrando, il loro equipaggiamento è nel cassonetto di un furgone, anche le maschere antigas. (L’Is ha impiegato gas mostarda anche qui, a Makhmour). Più avanti altri americani, ex militari “volontari”, sono impegnati nella ricognizione del terreno e prendono parte al fuoco.
La fanteria dei peshmerga e un vastissimo numero di veiÈ una coli diversi più o meno adatti (qua e là si rischia l’ingorgo) conducono la vera occupazione del territorio. È uno spettacolo eccentrico, perché se le prime truppe mostrano una professionalità da scuola militare, il grosso dei peshmerga si muove ancora coi modi della guerra partigiana, e spesso con gli stessi uomini. La prima linea è guidata da anziani capi della montagna, al centro dei quali sta il leggendario Kosrat Rasul Ali, il “leone del Kurdistan”. Kosrat ha solo 64 anni ma una delle tante ferite lo ha reso da tempo invalido nei movimenti e ostacolato nella parola; però sta sul campo con una specie di calma felicità. «È la sua terapia», dicono gli uomini, che lo venerano. In questa regione del KRG il partito egemone è il PUK, quello che oggi si batte è il suo esercito, e Kosrat è il suo eroe. È una veterana l’unica donna combattente che incontro, Tamina. Ha 55 anni, ha combattuto in montagna e vissuto in Germania, è in campo con suo marito, Muhamad Haji Mahmoud, fondatore del partito socialista democratico, hanno perduto due figli, uno nella prima resistenza contro l’Is dentro Kirkuk. Questi comandanti peshmerga indossano lo sharoual o il ranku-joghal, il costume tradizionale, senza uniformi.
Quasi nessuno indossa elmetti o giubbotti. I più sono a capo scoperto, altri hanno berretti o turbanti che li proteggano, se non dai proiettili, dal sole cocente –è un’altra giornata da 45 gradi. Si mangia molta polvere. Qua e là l’Isis in fuga incendia le stoppie. La composita armata peshmerga non completa ancora lo schieramento pittoresco, perché ci sono i volontari. Sono giovani, alcuni proprio ragazzi, che arrivano nel loro abito quotidiano, sandali e sneakers, il fucile a tracolla, posteggiano moto e motorini sul bordo della strada e vanno a combattere. Nessuno li ha precettati, nessuno li organizza. Qualche ora dopo tornano alla spicciolata, inforcano la moto e se ne rivanno a casa, ciascuno per sé. Su un motorino che si infilava spericolato tra i blindati e i pick-up del rientro erano in tre, aggrappati l’uno all’altro e ai loro simil-kalashnikov. I capi sono preoccupati he intralcino la disciplina, ma non se la sentono di escluderli: curano solo che non interferiscano con le operazioni avanzate. La battaglia di oggi dispiega almeno 2500 combattenti- nessuno sa la cifra esatta: si tratta di togliere all’Is una posizione cruciale per le incursioni contro Kirkuk, la grande città petrolifera, e contro l’autostrada. Non ci sono combattenti curdo-turchi del PKK: in questi giorni devono vedersela coi bombardamenti dell’aviazione turca sul loro territorio d’esilio, i monti Qandil. Non ci sono militari iracheni, né miliziani di Hashd Al Shaabi, la cosiddetta “Mobilitazione popolare” sciita, che hanno perduto 5 uomini in un’incursione della scorsa notte.
Dopo 8 o 9 ore, alcune delle forze rientrano e vengono sostituite. Il calcolo delle perdite rispettive è difficile. Le curde sono dovute esclusivamente alle mine. Fra i jihadisti, che ormai scelgono di fuggire, sono decine, dovute soprattutto agli aerei. Vedrò in un filmato uno di loro, gravemente ferito, sembra un ragazzino. Un soldato ha ripreso col telefono un comandante peshmerga che gli dà da bere e chiede: «Perché hai voluto farti questo? Non hai pietà di te? Sei giovane, perché devi farlo? Siamo tutti musulmani…». Il ragazzo gli prende la mano per baciarla, «No, no!», dice l’altro. I commenti alla scena saranno contrastanti, qualcuno deplora che si abbia compassione per gente «che violenta le nostre figlie, decapita i padri e ruba i bambini per farne dei mostri assassini», i più lodano: «Per questo siamo diversi da loro». Il filmato finisce lì, poco dopo il ragazzo è morto dopo aver ripronunciato la sua formula di martirio… I peshmerga che rientrano ostentano i trofei di bandiere nere catturate: una, gli uomini dell’Is l’avevano issata in cima a un palo della luce. Vengono via, solo ora, anche i grandi vecchi. Si fermano, soldati e capi, in un poverissimo villaggio dai muri di fango a ridosso della strada, dove lo sheick è cieco, benedice tutti e offre un pasto munificente. Ehi, Kosrat, Sher, leone – gli dico- come ti è sembrata la giornata. Normale, dice.