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 2015  agosto 31 Lunedì calendario

Jobs Act, a un anno e mezzo dal varo e a sei mesi dall’attuazione facciamo il bilancio delle misure che avrebbero dovuto rivitalizzare il mondo del lavoro. Anche se i contratti stabili crescono, il tasso di disoccupazione dei giovani è al massimo storico: 44,2%

Sei mesi di Jobs Act. O meglio, sei mesi con il nuovo contratto a tutele crescenti, il cuore della riforma del lavoro del governo Renzi. Come vanno le cose? Non benissimo. Il tasso di disoccupazione dei giovani è al massimo storico: 44,2%. Il tasso di occupazione dei giovani è al minimo storico: 14,5%. Così anche in generale: giù l’occupazione al 55,8%, su la disoccupazione che ora viaggia al 12,7%, dopo aver sfiorato il 13% record a novembre. Nel mese di giugno – ultimi dati Istat a disposizione, domani arrivano quelli di luglio e del secondo trimestre si sono persi 40 mila posti sull’anno prima e aggiunti 85 mila disoccupati. Questa la fotografia.
Demerito del Jobs Act? Difficile sostenerlo, con un Pil che si affaccia solo da qualche mese al segno più, stagnando allo zero virgola (+0,2% nel secondo trimestre, +0,7% atteso per l’anno). Consumi, investimenti, produttività: nulla tira. Non come dovrebbe per rianimare il lavoro. Nessun demerito, dunque. Ma neanche rimedio, a leggere i dati, a sei mesi dall’entrata in vigore del primo degli otto decreti attuativi (gli ultimi quattro sono attesi in settimana). Era il 7 marzo scorso e in Italia nasceva il nuovo contratto a tempo indeterminato senza articolo 18. Accompagnato da uno sgravio (già in vigore da gennaio) senza precedenti: zero contributi e zero Irap. Eppure il quadro è quello dell’Istat.
Un quadro di stock: quanti occupati e disoccupati in un dato periodo. Spesso contrapposto specie dalla comunicazione politica, se più favorevole – all’altro di flusso di Inps e ministero del Lavoro che invece registrano contratti attivati e cessati. Nessun conflitto, entrambi raccontano pezzi diversi della stessa storia. Se un giovane viene stabilizzato, dunque passa da un contratto a termine al tutele crescenti, per ministero e Inps è un +1, mentre per l’Istat è zero (lavorava prima e lavora ora). Dire dunque, come fatto dal ministero del Lavoro la settimana scorsa ( pasticciando sui dati, poi corretti) che nei primi sette mesi dell’anno sono stati creati 117 mila contratti a tempo indeterminato e 210 mila trasformazioni ( il 40% in più sul 2014) non significa che il tasso di occupazione si impenna. Piuttosto che il lavoro nuovo cambia pelle: un po’ meno precario, un po’ più stabile (ma senza articolo 18).
Non era questo però l’obiettivo del Jobs Act. «Renzi l’ha lanciato dicendo: le imprese non hanno più alibi. Ma per assumere, non per creare contratti meno precari», ragiona Michele Tiraboschi, ordinario di diritto del lavoro all’università di Modena e Reggio Emilia e coordinatore scientifico di Adapt. «Dopo quattro leggi sul lavoro negli ultimi quattro anni, non se ne sentiva bisogno del Jobs Act. L’emergenza era ed è aumentare l’occupazione. In Italia lavorano solo 55 persone su 100, in Germania e Inghilterra 80. In questo, la riforma è fallita. Come pure sulla flexsecurity. La promessa era: se perdi il posto, vieni ricollocato. Invece si è tolto l’articolo 18 senza costruire la sicurezza sul mercato del lavoro. Vogliamo parlare dell’abuso di stage e lavoro nero? E poi l’imprenditore ora può fare quello che vuole: prende gli sgravi, licenzia pagando quattro mensilità, controlla a distanza e demansiona». Non la vede così il senatore pd Pietro Ichino: «L’aumento dell’occupazione potrà venire solo da un aumento degli investimenti – soprattutto esteri – e dei consumi, che nessuno può attendersi nel giro di pochi mesi dall’entrata in vigore di metà della riforma. Riforma che sta mutando in meglio la qualità dell’occupazione: per la prima volta, dopo due decenni di auspici e discussioni, si sta facendo qualcosa di serio e di efficace per superare il dualismo tra protetti e non protetti nel mercato del lavoro».
Critici i sindacati. Anche il più aperto, la Cisl che il 12 dicembre scorso si sottrasse allo sciopero generale contro il Jobs Act, indetto da Cgil e Uil. «Aspettiamo al varco il governo sulle politiche attive», sospende il giudizio Gigi Petteni. «Se perdo il lavoro, non devo essere più solo. Su questo siamo preoccupati, visto che non si parla di risorse. Ma possibile fare politiche attive senza soldi?». In sintonia, Guglielmo Loy, Uil: «Oltre 11 miliardi per la decontribuzione, zero per le politiche attive.
Bene che si abbassi il costo del lavoro, ma così rimane solo la flessibilità in uscita. E poi?». «L’unico effetto tangibile del Jobs Act – analizza Serena Sorrentino, Cgil – deriva dal bonus previsto in legge di Stabilità. Dopodiché, la precarietà non si riduce: i contratti a tempo indeterminato sono fermi al 15%, mentre 2 su 3 in media durano 4 giorni. Solo le collaborazioni diminuiscono, ma quante finiscono nelle partite Iva? Non lo sappiamo, perché nessuno le monitora. La Naspi poi penalizza i lavoratori discontinui, specie gli stagionali. E i diritti di tutti sono ridotti. Ecco il Jobs Act».