il Giornale, 31 agosto 2015
Che fine ha fatto Deborah Compagnoni? L’ex regina delle nevi ora fa lo slalom fra figli e beneficenza. La campionessa ha preso il diploma di maestra di sci dopo l’addio alle gare. Per lei vincere è riuscire a conciliare vita da mamma e impegno sociale: «La famiglia? Uno sport di squadra da atleti veri»
Ora è vero: Deborah Compagnoni sa sciare. Lasciate stare le quattro medaglie olimpiche, i tre sigilli mondiali, una coppa di gigante e i 44 podi in Coppa del mondo. Volere, destino o fortuna, adesso che è diventata maestra di sci pur senza esercitare, che fosse soprattutto bravura lo certifica un diplomino di carta, conservato insieme ai suoi trofei nell’albergo di famiglia a Santa Caterina Valfurva in Valtellina. «Ho studiato un po’ di nivologia, meteo, turismo, e poi ho anche preso “ripetizioni” in pista da mio cugino». Si scusa, quasi, la Deborah nazionale: «Sa, certi movimenti base noi in gara li dobbiamo saltare». Per carità, il traguardo innanzitutto. Lo stile verrà dopo? Averne, un briciolo del suo. In pista come nella vita. E un senso infinito per la neve: che fosse mossa o ghiacciata, primaverile o crostosa, Deborah ci volava sopra, con intuito e grazia, ed era un passo avanti alle rivali. Proprio come oggi sta sempre un passo indietro e ti liquida la sua prima manche di vita con lo stesso gesto rapido della mano con cui abbatteva i pali da slalom: «Non parliamo delle medaglie: son cose passate».
Già, peccato che quelle «cose passate» siano tanta parte della storia dello sci. Dai successi al dolore, a quel grido in mondovisione ai Giochi di Albertville nel 1992. Un giorno a medaglia, l’indomani col ginocchio distrutto sotto i ferri. Delle sue medaglie non sa scegliere la più sofferta: dalla «libertà» dell’oro in SuperG alla «liberazione» di Nagano ’98 quando «dovevo vincere». Il vero insegnamento era già arrivato con la prima gara importante, i Mondiali junior del 1986. «Arrivai terza – ricorda Deborah -. L’allenatore fu chiaro: sei qui al posto di una titolare infortunata». Da allora mai «tirarsela». «Ero felice se vincevo, ma mi sono anche fatta molto male e così quando le cose andavano bene mi dicevo, “zitta”, che il destino non si accorge di te».