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 2015  agosto 31 Lunedì calendario

Pechino, il fallimento dell’atletica italiana. È stato il peggior Mondiale della storia, non abbiamo portato a casa neanche un medaglia, il miglior risultato è stato di Pertile, quarto nella maratona e 12 su 15 sono finiti fuori al primo turno. A 340 giorni dalle Olimpiadi, i 30 azzurri avevano il dovere di vincere e invece hanno fatto un disastro che non lascia ben sperare

Il peggior Mondiale della storia. L’Italia torna a casa con le ossa rotte e il morale a terra: la mezza barba di Tamberi, ottavo nell’alto («Non riuscivo a fare la rincorsa: non so spiegare cosa sia successo…»), è la grottesca fine di un film horror. «Più che dai risultati, sono deluso dall’atteggiamento degli atleti» dice il presidente Giomi, il cui quadriennio scadrà a Rio. I numeri sono impietosi: zero medaglie (come a Berlino 2009), 12 su 15 out al primo turno (promossa la Hooper; Grenot e Tamberi ripescati). A 340 giorni dai Giochi, i 30 azzurri avevano il dovere di vincere, ciascuno, una piccola medaglia: l’unico primato personale (22’’92) è della Hooper nei 200. «Un grigiore complessivo, un passo indietro clamoroso – è il bilancio —. Il d.t. Magnani farà rapporto atleta per atleta. Ma è chiaro che sarà un’Olimpiade ristretta».
Nel medagliere sorridono 43 Paesi (20 europei). Noi siamo all’anno zero, con annosi problemi intatti. Atleti con la pancia piena dello stipendio dei corpi militari (in Italia, in totale, sono 1182, un’enormità: un sistema sbagliato sfuggito di mano), che si accontentano di brillare tra i confini. «I meccanismi di entrata e uscita vanno rivisti: se in due anni non fai risultati, trovi un lavoro» sbotta il presidente.
Sarà un processo lungo: la mentalità di un Paese abituato al posto fisso, e l’atletica ne è lo specchio, è dura a morire. Lo sport è di chi diversifica, si mette in gioco, abbraccia le sfide. «Non accetteremo più che gli atleti si allenino a casa loro. Vietato isolarsi: si dovranno fare periodi nei centri tecnici o con i nostri advisor». Se il keniota Julius Yego (oro) va in Finlandia per imparare il giavellotto, insomma, non si vede perché Alessia Trost – che fa parte del nutrito plotone di big infortunati da recuperare per Rio (Donato, Greco, Schembri, Straneo, Chesani) – resti avvitata a Pordenone mentre una coetanea, la russa Kuchina, sbanca l’alto a Pechino. Tra gli altri Federica Del Buono, la nostra africana di Vicenza, k.o. per una gestione avventata, dovrà rivedere le abitudini. Il paradosso? Chi è emigrato da anni, Fassinotti a Birmingham, si è ritirato senza saltare e senza avvertire il d.t., impegnato sul percorso della marcia. Assurdo.
L’atletica è troppo complessa per avere soluzioni semplici. Devono crescere gli atleti (e nel vivaio, da proteggere come panda, i talenti ci sono: Sottile nell’alto, Chiappinelli nelle siepi, Bocchi nel triplo, Riva nei 10 mila, Viola e Zenoni negli 800 e Tortu nello sprint; pronti, forse, per Tokyo 2020) ma anche i tecnici: «Mi dicono che si aggiornano. Poi scopri che la maggior parte non parla inglese» racconta Magnani, nel quale Giomi ha totale fiducia. L’epurazione riguarderà volti noti al tramonto. In questo senso la 19enne Folorunso nella 4x400 è un chiaro segnale. Ci saranno chiarimenti con società («Non basterà più fare una volta il minimo nella gara di quartiere per essere convocati») e corpi militari. Si studierà il sistema Canada, a Pechino otto medaglie, e il modello-nuoto (la fratellanza è già un caso politico). Nessuno lo ammette, ma la marcia a pezzi guarda al ritorno di Alex Schwazer con occhi diversi dopo questo Mondiale da dimenticare.
Il migliore, alla fine, è stato un 41enne: Pertile, quarto nella maratona. Gli anziani sono saggi e rispettati. L’Italia apolide, invece, non ha più nemmeno il suo posto nel mondo.