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 2015  agosto 31 Lunedì calendario

Mani low cost. Come fanno le nail Spa cinesi a offrire manicure a dieci euro? Semplice, «si lavora di più e ci si accontenta di margini di guadagno inferiori». L’esercito di piccole donne resta a testa china a limare unghie e stendere smalto (comprato all’ingrosso) per otto ore consecutive, in un silenzio religioso perché «ogni parola toglie attenzione al lavoro»

Una stanza sola con vista sulla strada, un boccione d’acqua per le clienti, un piccolo cartello che invita a provare il nuovo trattamento «mani di velluto». Nel piccolo salone di bellezza di Porta Genova, a Milano, c’è un’atmosfera familiare. Intima. Maria (i nomi sono di fantasia, ndr) è la «capo sala». Occhi e capelli neri, 25 anni, si muove con fare sicuro tra le poche poltrone del negozio. «Di solito bisogna prenotare», dice una cliente. «Prima andavo a Cesano Boscone, ma da quando mi hanno aperto questo negozio sotto casa, molto più economico, non vale la pena andare fin là». Maria annuisce, sorride. Fino a 5 anni fa, viveva in un piccolo paese vicino a Shanghai. Poi si è trasferita a Milano, con la sorella Anna e la madre Rossella. I figli Guo e Liang invece – di 4 e 9 anni – sono rimasti in Cina con il nonno. «Non li vedo da due anni, l’unica volta che sono tornata a casa, ed è veramente durissima», racconta, mentre lotta con l’unghia incarnita di una cliente. «Portarli in Italia sarebbe impossibile, qui lavoro tutto il tempo».
I numeri
Negozi aperti fino a tarda sera, senza turni di riposo e nella maggior parte dei casi senza chiusure festive, orario continuato, prezzi (più o meno) stracciati. Il successo delle estetiste straniere (e anche dei parrucchieri) a Milano è sotto gli occhi di tutti. Così come l’assalto delle clienti: studentesse e signore che affollano i locali a tutte le ore del giorno. I servizi offerti sono riservati alle donne, per marcare una linea netta con tutti quei negozi di massaggi «all’orientale», distribuiti per lo più in zona Porpora e Loreto, che con la bellezza c’entrano poco. 
I numeri del fenomeno li fa l’Unione artigiani di Milano. In città su 6.100 imprese individuali comprese nel settore della «cura della persona» (acconciatura, estetica, massaggi), 541 sono intestate a stranieri: 148 a cinesi (erano 19 nel 2010). A livello nazionale, secondo i dati della Cgia di Mestre (ultimo rilevamento del 2013), in Italia le imprese cinesi in questo settore sono 3.500, con un incremento del 34% rispetto al 2012. Anche se in realtà questi sono numeri lontani dal reale, dicono gli operatori, perché «diversi negozi sono intestati a prestanome italiani»: estetiste e acconciatori che dietro compenso accettano di figurare come responsabili tecnici perché magari chi apre questo tipo di attività non ha titoli. E perché la legge italiana prevede la presenza di una figura competente per tutto l’orario di lavoro, che controlli norme igieniche e qualità dei prodotti e garantisca regolarità di contratti e turni di lavoro. Come conferma Barbara, titolare di un negozio nel centro di Milano che ha recentemente pubblicato un annuncio per assumere personale: «Più di una delle ragazze italiane che si sono presentate al colloquio ha ammesso di essere stata contattata per figurare, dietro compenso – e si parla di cifre intorno ai 30 mila euro – come direttore tecnico di un salone di manicure gestito da stranieri». 
Le qualifiche professionali
Ma cosa c’è dietro questo successo? Spesso una politica di personale a basso costo. Giovani apprendiste che non vengono pagate finché non padroneggiano la tecnica, regolate da rapporti di lavoro a chiamata. E margini di risparmio ottenuti anche grazie a prodotti acquistati ai grandi magazzini. Molte non parlano italiano. Nel negozio dove lavora Maria per esempio, in Porta Genova, quando la proprietaria non c’è, lei è l’unica a usare la nostra lingua. Le altre ragazze, alcune giovanissime, stanno zitte, alle prese con i piedi o le mani delle clienti, o dicono poche parole in cinese tra loro. Per stendere lo smalto e limare le unghie, poi, non sono richieste qualifiche professionali particolari. «Io ho imparato in Italia, lavorando», dice Maria. «Quando vivevo a Shanghai ero commessa in un negozio di vestiti». Tutto regolare. «Perché in Italia per stendere smalto e limare le unghie non è necessario un diploma specifico, che invece è richiesto per la ricostruzione, cioè per le discipline onicotecniche», spiega Gian Andrea Positano, responsabile del Centro studi di Cosmetica Italia, associazione nazionale delle imprese cosmetiche. Non sempre è così. In viale Gran Sasso, Sara, che da poco ha aperto con il marito un piccolo negozio, racconta di avere studiato da estetista in Cina; all’arrivo in Italia, una prima casa e un lavoro in periferia, poi il «salto» con l’attività propria. A Milano è nata sua figlia, che ha due anni e spesso sta in negozio con la mamma e una baby sitter. 

I prezzi

Il punto di forza delle estetiste straniere sono sempre i prezzi. In zona Piola-Loreto per esempio, per una manicure non si pagano più di 10-12 euro, una ceretta completa ne costa appena trenta. In centro città i prezzi sono più alti: ma anche qui una manicure non arriva a 15 euro, una pedicure vale 25. Ma come si fa a praticare prezzi del 30, del 50 per cento più bassi degli altri? «Si lavora di più e ci si accontenta di margini di guadagno inferiori», taglia corto Francesco Wu, presidente dell’Unione imprenditori Italia-Cina. Poi ci sono saloni più alla moda, come Wow Nail, tre sedi in centro e un proprietario, Eric Chen (vero nome Chen Xiao Cai, 31enne cinese di seconda generazione), imprenditore con le idee molto chiare e che non ha paura di alzare i prezzi: «A Milano ci sono dozzine di negozi di manicure, ma io da subito volevo distinguermi. Era un’occasione per dimostrare che esistono cinesi integrati che amano l’Italia come fosse la propria patria, pagano le tasse e mettono l’igiene al primo posto», dice. 
Gli italiani
Se i negozi cinesi proliferano, dall’altra parte ci sono gli italiani. Che vanno in sofferenza, costretti spesso ad abbassare i prezzi. «Almeno un po’», dice Anna, che lavora in un negozio tra Piola e Lambrate. E anche se non arrivano a chiudere, questi esercizi sentono l’erosione del mercato e del reddito. «Se applichiamo le normali regole del mercato del lavoro, tra contributi, Inps, Inail, abbiamo un costo fisso d’esercizio sotto al quale non è possibile scendere», dice per tutti Mario Accornero, segretario dell’Unione degli artigiani di Milano. «Non parliamo poi di tecnologie, spese di produzione, macchinari, o di qualità del materiale usato». Quel che è certo che negli ultimi tempi il lavoro è diminuito. E «dove prima ruotavano quattro persone per gestire un centro di estetica con due o tre cabine, oggi ci si arrangia con due dipendenti», aggiunge Barbara.
Le infrazioni
Aprire una Nail spa è facile: basta una «Scia», una Segnalazione di inizio attività. Dietro però «ci sono spesso aspetti di legittimità», ammette Mario Emanuelli, commissario dell’Annonaria di Milano, il corpo dei Vigili urbani addetto agli esercizi commerciali. Che dall’inizio dell’anno ha svolto controlli in 327 centri estetici. Il bilancio: 102 violazioni a leggi e regolamenti; 95 di tipo amministrativo; due sanitarie; due persone denunciate. L’irregolarità più frequente? «L’indicazione come responsabile del centro di un soggetto che non è presente al momento del controllo». La sanzione è immediata e va da 516 a duemila euro. Meno se viene pagata entro 60 giorni. «Ma se durante successivi controlli il problema si ripresenta, può essere decisa la sospensione dell’attività». Va detto che le probabilità di controllo non sono elevate. E le imprese individuali, per le quali è richiesta una semplice comunicazione agli uffici competenti, si prestano più delle società allo «stratagemma» di aprire o chiudere l’attività per evitare i controlli fiscali e far perdere le tracce. 
I rischi
Oltre il fisco e la concorrenza, restano i problemi di salute di chi in questi centri ci lavora. Perché solventi, smalti e soluzioni acriliche sono accusate di provocare infiammazioni a gola e polmoni, alla pelle, e in certi casi, addirittura aborti. Sono le conseguenze più gravi – denunciate da un’inchiesta del New York Times – dell’uso di agenti chimici e miscele potenzialmente velenose nei piccoli saloni di bellezza. Il quotidiano Usa ha impegnato un team di reporter che, per mesi, hanno visitato i nail saloon newyorkesi, intervistando «impiegate» e proprietari e denunciando una serie di gravi violazioni e abusi a cui vengono esposte le lavoratrici. Pagate pochissimo, anche solo un dollaro all’ora. A seguito dell’inchiesta, il governatore Andrew Cuomo ha istituito una task force di ispettori che andranno nei negozi per controllare le condizioni igieniche e di rispetto dei diritti delle lavoratrici, con la minaccia di chiudere quelli che non seguiranno le nuove direttive. Tra le misure imposte, l’obbligo di indossare guanti e mascherine per proteggersi dagli agenti chimici e l’installazione di sistemi di ventilazione. Inoltre, i proprietari dei saloon dovranno affiggere nel locale le nuove misure, in sei lingue, così che tutte le lavoratrici possano comprenderle. 
Opportunità e speranze
«In Italia abbiamo regole più stringenti che in altri Paesi», sottolinea Emanuelli. A Milano, in molti dei negozi di manicure le ragazze indossano guanti e spesso mascherine che le proteggono da un lavoro comunque pesante. Dietro la sua, Serena, giovane emigrata filippina di seconda generazione, chiacchiera in un buon italiano e lima le mani di una cliente con scrupolosità e gentilezza. È nuova del negozio, in zona semi centrale, e la «padrona» la tiene sott’occhio, passandole continuamente dietro le spalle per controllare come sta lavorando. Serena sta per prendere la cittadinanza italiana. «Sono così felice», confessa ma a bassa voce, non si vuole fare sentire perché ogni parola toglie attenzione al lavoro. È nata in Italia, poi un periodo nelle Filippine, poi di nuovo Milano: ormai è una pendolare sulla metro e questo fresco impiego è solo l’ultimo di una lunga serie. «Mi piacerebbe avere un negozio mio, prima o poi». La ragazza al suo fianco, cinese, la osserva un po’ stranita. Serena non sa una parola in cinese. Con le colleghe si scambiano le informazioni di base in un italiano elementare. Nelle otto ore di lavoro filate, che spesso diventano nove, non c’è molto tempo per chiacchierare.