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 2013  luglio 10 Mercoledì calendario

Il Monviso. storia delle scalate

Agosto 1863. A Torino fa un caldo insopportabile quando Quintino Sella invita il deputato calabrese Giovanni Barracco ad accompagnarlo sul Monviso. Da giorni l’afa soffoca la pianura e nasconde lo sfondo delle Alpi. «In montagna si starà meglio» assicura Sella per convincere il Barracco. È un uomo che sa farsi obbedire, il barbuto Quintino. A trentasei anni è già l’ex ministro delle Finanze del governo Rattazzi; studia le rocce alpine da quando era un ragazzo e ora ha deciso di scalarle in nome del Regno appena nato ai piedi delle cime. «Adesso tocca a noi» insiste il biellese tra i banchi di legno del Parlamento.
Il Monviso non è una montagna come le altre, è un simbolo subalpino. Geograficamente sarebbe il monte dei saluzzesi che lo chiamano semplicemente Viso, come uno di casa, ma è anche dei torinesi che aspettano la primavera contando i tramonti dietro il triangolo di pietra. Oltre Viso il sole scende ogni sera un po’ più a ovest scippando orizzonte all’inverno, e ogni millimetro di cresta rubata è un colpo di freddo che se ne va.
Il Viso è il monte dei piemontesi ma è stato salito dallo straniero. «Rubato», per essere chiari. Quando Sella invita Barracco a rimboccarsi le maniche insieme a lui, la cima della Val Varaita non è più una «prima» e nemmeno una «seconda». La piramide delle Cozie è già stata scalata dai britannici Jacomb e Mathews e dalle guide Jean-Baptiste e Michel Croz di Chamonix nel 1861, acquistando così una certa internazionalità, poi l’impresa si è ripetuta nel 1862 con Francis Fox Tuckett, l’esploratore inglese che Leslie Stephen paragonò all’«errabondo Ulisse della leggenda greca, o all’invulnerabile Sigfrido nella saga dei Nibelunghi», di nuovo accompagnato dalla guida Croz e dal portatore della Val Pellice Bartolomeo Peyrot, che dunque fu il primo italiano sulla vetta.
Il Monviso non poteva passare inosservato ai britannici dell’Ottocento, instancabili cacciatori di cime, che poi si domandarono perché i montanari del posto non l’avessero scalato loro. Quei valligiani che ogni mattina si alzavano con il Monviso sulla testa e ogni sera se lo portavano a letto con i ricordi della giornata. Il fatto è che ai montanari non è mai fregato niente delle cime, neanche di quelle facili. La via normale del Monviso non è difficile: sale la parete sud con difficoltà di secondo grado; la maggiore insidia sta nella roccia instabile e pericolosa; oggi la parete si raggiunge dalla Valle Po scavalcando il Colle delle Sagnette, ma i pionieri ci arrivavano da Casteldelfino risalendo i valloni dell’alta Varaita. È difficile credere che nel 1861 una via così logica fosse ancora incompiuta, specie se si pensa che nel 1834 il saluzzese Domenico Ansaldi era già arrivato a centocinquanta metri dalla vetta, sfiorandola.
Comunque Quintino Sella, il conte Paolo Ballada di Saint-Robert, suo fratello cavalier Giacinto e il barone Giovanni Barracco partono alla volta di Venasca e Casteldelfino, si spingono oltre i boschi dell’Alevé, regno del pino cembro, e scalano i tremilaottocento metri del Monviso con l’appoggio di tre montanari: Raimondo Gertoux, Giuseppe Bouduin e Giovan Battista Abbà. Il 12 agosto 1863 gli italiani alzano finalmente la testa di fronte allo strapotere inglese sulle Alpi e siglano idealmente, e ben presto anche materialmente, la fondazione del Club Alpino in risposta all’Alpine Club di Londra.
Appena torna dall’ascensione Quintino scrive una lunga lettera a Bartolomeo Gastaldi, amico e compagno di studi: «… è una vera crudeltà il venire a te, cui il dovere tenne incatenato sotto quest’afa canicolare in mezzo a carte aride, e fastidiose come il polverio che infesta le strade, e parlarti delle impareggiabili soddisfazioni da noi godute appiè delle nevi, tra quel che gli orrori alpini hanno di più sublime e tremendo». Per Sella e compagni il Monviso è una questione di orgoglio. Sebbene appartenga territorialmente al Piemonte, la montagna si trova vicino alla linea spartiacque tra due Stati: di qua il Regno d’Italia, di là il Regno di Francia, in mezzo il regno perduto. Infatti il Monviso non è più il cuore delle Repubblica degli Escartons, che per secoli accomunò usi, lingue, costumi e speranze delle valli allungate ai suoi piedi – dalla Castellata della Val Varaita alla regione del Briançonnais, dalla Val Chisone alla Valle di Susa –, luoghi che tra il Trecento e il Settecento avevano interpretato la montagna come fulcro e cerniera, abitandole intorno.
Ora che non è più un centro, il Viso è diventato una specie di riscossa post risorgimentale: «Gli abitanti del Nord – scrive ancora Sella a Gastaldi – riconoscono nella razza latina molto gusto per le arti, ma le rimproverano di averne pochissimo per la natura. Veramente chi avesse visto le nostre città pochi anni or sono, e considerata la guerra spietata che si faceva alle piante, e il niun conto in cui si tenevano le tante bellezze naturali che ci attorniano, avrebbe potuto convenirne. Però da alcuni anni v’ha grande progresso… Ei mi pare che non ci debba voler molto per indurre i nostri giovani, che seppero d’un tratto passare dalle mollezze del lusso alla vita del soldato, a dar piglio al bastone ferrato, ed a procurarsi la maschia soddisfazione di solcare queste meravigliose Alpi, che ogni popolo ci invidia». Su quei valori il 23 ottobre 1863, due mesi e undici giorni dopo la salita del Monviso, nasce al Castello del Valentino di Torino il Club Alpino, che solo nel 1867 si chiamerà «Italiano». Una quarantina di soci riuniti in assemblea approva lo statuto ed elegge il primo consiglio. Spiccano i nomi di alcuni deputati del Regno, segno dell’evidente continuità tra alpinismo e politica, e un piccolo mondo di gentiluomini e intellettuali che evadevano dalle costrizioni della vita di città percorrendo le Alpi, scalandole e studiandole. I primi alpinisti italiani univano l’ironia e il puntiglio, la fantasia e il rigore. Cresciuti in una terra in cui il senso del dovere si fonde misteriosamente con il bisogno di avventura, avevano trovato nelle Alpi il terreno per esplorare rocce e ideali inediti.