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 2014  agosto 08 Venerdì calendario

Biografia di Faà di Bruno

È difficile trovare raccolte in un’unica persona tante qualità. Francesco Faà di Bruno, vissuto in Piemonte nell’Ottocento, fu scienziato e professore universitario, ma anche ufficiale di valore, architetto, ingegnere, inventore, musicista, scrittore, giornalista e, negli ultimi anni, perfino prete. Proclamato beato da papa Giovanni Paolo II il 25 settembre 1988, nove anni più tardi divenne anche protettore dei corpi tecnici dell’esercito.
Nato ad Alessandria nel 1825 da una famiglia nobile proveniente appunto da Bruno, un comune vicino a quella città, nel 1840 fu ammesso alla Regia Accademia Militare di Torino. Divenne quindi luogotenente nel Corpo di Stato Maggiore Generale.
Arrivarono gli anni delle guerre d’indipendenza: il giovane partecipò alla prima come aiutante di campo del futuro re Vittorio Emanuele II. Rimase stupito che i generali sabaudi non possedessero carte aggiornate dei territori che volevano invadere, così in un momento di ristagno delle operazioni, disegnò la”Gran Carta del Mincio”. Essa fu stampata a colori a Parigi: il governo piemontese, dopo essersi impegnato, non pagò il tipografo, causando al Faà un grave danno economico e morale. Eppure una decina di anni più tardi l’impiego di quella carta topografica fu decisivo proprio per l’esercito sabaudo nella grande battaglia di Solferino e San Martino.
Promosso capitano di stato maggiore, nel 1849 combatté nella battaglia di Novara; fu ferito e decorato con la menzione onorevole. Per il suo valore Vittorio Emanuele II, appena salito al trono, gli offrì l’incarico di precettore di matematiche dei principi Amedeo e Umberto. Per prepararsi al compito fu mandato a Parigi per perfezionarsi: là frequentò i corsi di scienze naturali alla Sorbona. Nella capitale francese non dedicò il suo tempo solo alle lezioni universitarie: appena libero visitava i negozi di libri e di strumenti scientifici. Entrò anche in contatto con gli ambienti del cattolicesimo sociale, aderendo alle prime Conferenze di S. Vincenzo d Paoli, fondate poco prima da Federico Ozanam, che conobbe personalmente. In lui cominciava a farsi sentire la necessità di essere vicino ai poveri, le cui famiglie visitava per conforto e aiuto. Del resto la carità era una prerogativa di famiglia: i suoi genitori, proprietari terrieri benestanti, erano sempre molto generosi verso chi aveva bisogno. Non si poteva poi sfuggire al destino, il quale aveva voluto che il suo primo alloggio a Parigi fosse proprio nello stabile in cui nel 1833 era stata fondata la prima Conferenza di S. Vincenzo d Paoli.
Nel 1851, ottenuto il diploma di Licencié ès Sciences, tornò a Torino, dove, forse per le sue manifeste idee cattoliche non ben accette al governo anticlericale piemontese, l’offerta del posto di precettore che gli era stata fatta non ebbe seguito. Inoltre il Faà a Parigi aveva elogiato la spedizione francese contro la repubblica romana di Mazzini e Garibaldi. Tutta la sua vita sarà una sofferenza per il contrasto fra la sua aspirazione all’unità italiana e, come cattolico fedele al papa, il rifiuto dei soprusi alla chiesa con i quali quell’unità si voleva ottenere.
Come se tutto questo non bastasse, egli tempo prima aveva suscitato il sospetto del ministro della guerra, Alfonso La Marmora, su cui impulso Massimo D’Azeglio, primo ministro, il 21 agosto del 1850 così scriveva al suo ambasciatore a Parigi: «Il cavalier Faà di Bruno, capitano di stato maggiore, sta traducendo un lavoro sulla campagna del ’48, fatto per conto del maresciallo Radetsky. La prego di convocare questo ufficiale e di dichiarargli chiaramente a nome del re che, se non lascia perdere, sarà immediatamente radiato dal servizio di Sua Maestà».
Ma i guai non erano finiti: nel 1853 il Faà dovette ritirarsi dall’esercito, ufficialmente per dedicarsi agli studi, in realtà per aver rifiutato, per motivi di coscienza, di battersi con un collega ufficiale che lo aveva offeso pubblicamente, e per aver impedito al tempo stesso agli amici di salvargli l’onore battendosi al suo posto. Del resto, vietato per legge, il duello era allora molto praticato; lo stesso conte di Cavour, venuto alle armi con un altro deputato, proprio in quei tempi se l’era cavata grazie all’immunità parlamentare.
Il ritiro dall’esercito costò al Faà la perdita dello stipendio annuo che consisteva in 3500 lire: per i lavori compiuti in seguito si dovette accontentare di paghe ben inferiori. Ventitré anni dopo, come professore incaricato di analisi superiore all’università di Torino il suo stipendio supererà di poco le mille lire annue, la paga di un cuoco. Solo nel 1885 raggiunse di nuovo le 3500 lire. E pensare che, se non si fosse fatto scrupoli di coscienza, a meno di quarant’anni sarebbe divenuto certamente generale, con una paga superiore alle cinquemila lire!
Per la famiglia fu un altro smacco oltre a quello del mancato posto di precettore. I commenti nei salotti e nelle caserme non mancarono; a risollevare l’onore contribuì anni dopo il fratello Emilio, l’ammiraglio che nel 1866 s’inabissò a Lissa con la sua corazzata”Re d’Italia”. Questo fatto gettò invece nello sconforto Francesco, il quale aveva il dubbio che l’atto eroico in realtà fosse stato un vero e proprio suicidio.
Emilio Faà di Bruno
Emilio Faà di Bruno, fratello di Francesco
Poco dopo l’uscita dall’esercito il Faà pubblicò, per gli ex-commilitoni, il Manuale del soldato cristiano, che ebbe vasta diffusione. Vi si ribadiva il no ai duelli, che volevano risolvere i problemi con la forza bruta e la sorte invece che con la ragione.
Dedicò quindi il suo tempo alle composizioni musicali. Pubblicò La Lira cattolica, una raccolta di canti sacri popolari – in gran parte suoi per musiche e parole – che fu uno dei testi più diffusi negli ambienti ecclesiastici dell’Ottocento, ottenendo apprezzamenti perfino da Franz Liszt. Istituì anche un coro, il primo femminile in Italia.
Intanto sembrava che volessero assumerlo all’Osservatorio di Torino (prospettiva che poi sarebbe andata disattesa). Tornò allora a sue spese alla Sorbona per laurearsi in matematica e astronomia, lasciando il concittadino don Bosco a occuparsi di pubblicare il suo calendario, Il galantuomo, probabilmente l’unico testo acquistato ogni anno dai contadini piemontesi. Perché questi non fossero imbrogliati, il Faà vi riportava consigli professionali e spiegazioni sulle nuove unità decimali di pesi e misure introdotte nel 1850, ostiche al popolo abituato ai vecchi sistemi.
A Parigi, negli ambienti della Sorbona e dell’Ecole Polytéchnique conobbe alcuni dei maggiori esponenti della matematica francese, tra cui Hermite, Liouville, Chasles, Cauchy. Da Le Verrier, scopritore, con il solo calcolo, del pianeta Nettuno, fu accolto all’osservatorio astronomico dove studiò e lavorò. Cauchy nel 1856 alla laurea del Faà fu relatore delle due tesi da lui presentate, una di matematica e l’altra di astronomia. Questo grande matematico era anche dirigente della S. Vincenzo d Paoli; per il giovane piemontese fu non solo un maestro di cultura, ma anche un modello di vita, e lo spinse a dedicarsi contemporaneamente alla scienza e ai poveri.
Poliglotta, scienziato alla pari di altri famosi del suo tempo, Faà fu il primo matematico cattolico i cui testi vennero adottati nelle facoltà inglesi. I suoi articoli apparivano sulle più prestigiose riviste europee e i suoi trattati erano tradotti in francese e tedesco. I suoi studi s’inserirono nel quadro delle ricerche della scuola algebrica italiana, nata verso la metà dell’Ottocento sotto l’impulso dei lavori di Betti e Brioschi. Si occupò delle teorie dell’eliminazione, degli invarianti, delle forme binarie. Su queste ultime scrisse un trattato, molto apprezzato dai matematici del tempo, di cui uscì anche un’edizione tedesca. Volle scrivere anche un’opera imponente sulle funzioni ellittiche, purtroppo rimasta incompiuta, che doveva raccogliere la gran mole di materiale usato nei suoi corsi universitari. Al suo nome rimane legata la formula per mezzo della quale si è potuti giungere alla realizzazione dell’odierno calcolo matematico computerizzato.
Nell’ateneo torinese fu libero docente di analisi superiore dal 1856 al 1860, poi, nel 1861, dottore aggregato nella facoltà di scienze fisiche e matematiche. In quello stesso anno inviò memoriali al ministro della pubblica istruzione, perché venissero istituite cattedre per colmare il divario scientifico tra l’Italia e i paesi stranieri.
Intanto a Prato era stata creata la prima biblioteca popolare: il suo compito era quello di accrescere la cultura dei ceti popolari e favorire l’alfabetizzazione. Essa era circolante, cioè i volumi giravano tra gli iscritti. Venutone a conoscenza, il Faà nel 1863 ne istituì una a Torino (dove non esisteva ancora una biblioteca civica), con lo scopo, fra l’altro, di «moltiplicare la lettura di buoni libri scientifici», anche in lingua straniera.
Dal 1864 insegnò geodesia alla scuola di applicazione del corpo di stato maggiore. Nel 1871 fu nominato professore incaricato di analisi matematica e geometria; cinque anni dopo divenne professore straordinario, incarico che ricoprì fino alla morte. I ripetuti tentativi dell’università di Torino di concedergli l’ordinariato, come autorevoli matematici italiani e stranieri sollecitavano, furono bloccati dall’apparato statale a causa del suo forte impegno cattolico. All’ateneo torinese rimase comunque legato tutta la vita, e quando morì gli lasciò per testamento, insieme con molte altre opere, le preziose collezioni dei principali periodici matematici nazionali e stranieri: da quella donazione nacque una biblioteca di facoltà.
Per istruire la gente tenne all’università, primo in Italia, corsi popolari non retribuiti di matematica e astronomia. Si dedicò anche alla formazione professionale delle giovani povere, organizzando corsi triennali di economia domestica, e delle insegnanti elementari, tenendo egli stesso i corsi delle discipline scientifiche (una rivoluzione per le scuole femminili di allora), per cui scriveva anche i libri di testo. Essi prevedevano lezioni di meteorologia, per dare consigli sul tempo ai contadini, e di telegrafia, per aiutare, in caso di bisogno, gli addetti al telegrafo, allora unico collegamento tra i villaggi e il resto del mondo.
Fiducioso negli aspetti tecnologici dello sviluppo scientifico, partecipò a numerose edizioni delle Esposizioni Universali (Londra 1851 e 1862, Parigi 1855, 1867 e 1878), presentando ingegnose scoperte. Fu infatti inventore di un barometro differenziale, di un ellipsigrafo (per disegnare le curve ellittiche), di un fasiscopio (strumento didattico che permetteva di spiegare facilmente le fasi lunari), di uno svegliarino elettrico (per lui il tempo era prezioso e andava impiegato, senza ozi, nel migliore dei modi) e di uno scrittoio per ciechi – ispirato dalla sorella Maria Luigia, non vedente – che ottenne molto successo e fu persino esportato in America.
Convinto dell’armonia tra scienza e fede, fu in stretto contatto con importanti religiosi scienziati del suo tempo, tra i quali l’abate Moigno e padre Secchi.
Contemporaneamente alle sue ricerche scientifiche si dedicò alle attività sociali. Istituì mense economiche per i lavoratori, difese – come del resto Cauchy in Francia – la settimana lavorativa di sei giorni con la domenica libera, ma soprattutto creò l’Opera di S. Zita (santa lucchese del tredicesimo secolo, protettrice delle domestiche) per l’assistenza di quelle che allora, non senza disprezzo, erano chiamate serve; in particolare di quelle che abbandonavano il lavoro per non subire le violenze sessuali dei padroni o che, rimaste incinte, venivano sia licenziate sia rifiutate dai genitori, ricorrendo spesso al suicidio o all’infanticidio. Inutile dire che i nobili piemontesi, e all’inizio anche la sua famiglia, erano imbarazzati che un aristocratico si occupasse o addirittura abitasse con quei serventùn.
Il Faà fondò anche pensionati per le donne vecchie e invalide e per i sacerdoti anziani, o ridotti in miseria dalla confisca dei beni ecclesiastici, e la congregazione delle Suore Minime di Nostra Signora del Suffragio. A cinquantun anni si fece prete (era chiamato abate, appellativo che allora in Piemonte sostituiva il”don’ per i sacerdoti di origini nobili), sia per poter dirigere meglio le sue suore, sia perché occorreva un rettore sacerdote per la chiesa che stava costruendo.
A servizio della sua Opera, dei morti dimenticati (soprattutto i caduti in guerra) e del quartiere torinese di S. Donato, con le offerte della carità nel 1867 aveva infatti avviato la costruzione della chiesa di Nostra Signora del Suffragio, aperta al pubblico tredici anni più tardi, nella quale l’ideatore fu sepolto quando morì nel 1888. Il campanile, alto settantacinque metri, come un grattacielo di venticinque piani, nel capoluogo piemontese secondo in altezza solo alla Mole Antonelliana, ha l’aspetto di una gigantesca matita; circa a metà della sua altezza la muratura s’interrompe per far posto alla cella campanaria, con otto campane, una delle quali donata dal re Umberto I, del quale porta il nome, ingabbiate da trentadue colonnine di ghisa, per creare il miglior effetto acustico possibile. La costruzione in muratura continua più sopra, con diverse decine di metri, appoggiata su quelle esili colonnine. La stabilità di una struttura così insolita si deve solo alla geniale intuizione ingegneristica del Faà, suo progettista. Più in alto si trova l’orologio, visibile da tutti e quattro i punti cardinali: l’ideatore lo volle fortemente per dare l’ora alla povera gente, che a quel tempo orologi non ne aveva.