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 2015  agosto 05 Mercoledì calendario

Se l’Italia punta tutto sull’Iran. Petrolio, banche e mattone. Il primo contratto è già stato siglato. La Fata realizzerà una centrale elettrica da 500 milioni. In tutto si parla un giro d’affari per 7 miliardi

La firma di un memorandum con il ministero dell’Economia e la Banca centrale di Teheran da parte di Sace, Mediobanca e ministero dello Sviluppo, e la creazione di una commissione mista che svolga funzioni di “cabina di regia” per il rilancio della cooperazione: sono i primi risultati della visita in Iran di Paolo Gentiloni e Federica Guidi. I due ministri, Esteri e Sviluppo, accompagnati dal Gotha dell’economia italiana, saranno ricevuti oggi dal presidente Hassan Rouhani a conclusione della due giorni che celebra la riapertura del dialogo in vista del dopo-sanzioni. Il memorandum è finalizzato «a valutare progetti nei comparti industriali di eccellenza italiana funzionali allo sviluppo iraniano». Il tutto con linee di credito Mediobanca e garanzie Sace. Se le premesse saranno rispettate avrà avuto ragione Gentiloni che ha detto che «l’accordo sul nucleare ha più benefici che incognite». Per l’Italia l’occasione è senza precedenti: «Siamo il secondo partner europeo dell’Iran (dopo la Germania, ndr): vogliamo diventare il primo». Per il ministro serviranno 4-6 mesi per lo smantellamento delle sanzioni sia finanziarie che energetiche. E la Guidi, dopo aver annunciato un accordo tra l’Ice e la Trade agency iraniana, ha promesso l’impegno per riattivare i canali finanziari e il credito all’esportazione, «infrastrutture di base per permettere alle nostre imprese di lavorare».
I due ministri italiani sono arrivati in una Teheran diventata d’improvviso il crocevia della diplomazia mediorentale. Nella stessa giornata di ieri, Teheran ha invitato ufficialmente l’Arabia Saudita a seppellire l’ascia di guerra riprendendo le relazioni politiche ed economiche. Passo che darebbe un sicuro contributo alla distensione nell’intera area, dopo che già nei giorni precedenti il segretario Kerry si era assicurato un sostanziale appoggio per l’accordo da parte dei Paesi del Golfo. Ma soprattutto nel pomeriggio sono arrivati il ministro degli Esteri siriano Walid al-Moualem e l’inviato di Putin per il Medio Oriente, Mikhail Bogdanov. Insieme a Rouhani cercheranno di mettere mano alla vicenda siriana, la cui soluzione potrebbe effere l’effetto collaterale più clamoroso dopo l’accordo sul nucleare e il rientro a pieno titolo di Teheran nella comunità internazionale. Senza mettere in discussione l’accordo con Damasco, il viceministro degli Esteri iraniano Hossein Amir-Abdollahia, ha detto che «ora una fine della guerra che nasce dalla Siria è più probabile».
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Eni, Sace, Ansaldo Energia, Finmeccanica, Terna, Anas, Danieli, e poi Confindustria e Abi. Basta scorrere l’elenco delle imprese che partecipano alla visita in Iran dei ministri Gentiloni e Guidi per capire i settori su cui punta l’Italia nel disgelo con Teheran. Infrastrutture, trasporti, servizi finanziari, elettricità, ovviamente petrolio. Tutti comparti in cui l’Italia era presente prima delle sanzioni e può tornare in tempi brevi a dire la sua. La visita ha portato il primo contratto: l’ha firmato la Fata, del gruppo Finmeccanica, con l’iraniana Gadir per realizzare una centrale elettrica a ciclo combinato da 500 milioni. Ma ben altre sono le premesse per tutto quest’impegno di diplomazia economica. «È della massima importanza che l’Italia si presenti subito in grande stile nel nuovo Iran, per valorizzare un legame antico che è rimasto saldo in questi anni difficili», spiega Giovanni Castellaneta, già ambasciatore a Teheran e Washington e ora presidente della Sace. «Rimane il rammarico per non aver fatto parte dei Paesi negoziatori, ma ora che l’accordo c’è occorre piazzarsi in testa in una competizione serrata fra le imprese internazionali».La Sace, la società per il finanziamento dell’export del gruppo Cassa depositi e prestiti, prevede che da qui a tre anni le esportazioni italiane possano più che raddoppiare, dagli 1,1 miliardi del 2014 (e 1,6 di totale dell’interscambio) a 2,6 nel 2018. E poi accelerare la crescita per recuperare rapidamente i livelli del 2011 quando l’interscambio fra i due Paesi arrivava a 7,2 miliardi. Una volta avviati i grandi contratti e ristabilito il clima di fiducia, saranno più semplici le forniture minori ma non meno strategiche, dagli apparecchi di meccanica strumentale fino alla moda. «L’importante per le aziende piccole e grandi – precisa Castellaneta – è che sia ripristinata la funzionalità dei canali bancari». In forza delle sanzioni l’Iran è escluso dal circuito internazionale Swift, e i pagamenti delle poche forniture permesse devono passare per i “sarafi”, i cambiavalute locali, che li girano a Dubai, una triangolazione che fa lievitare i prezzi almeno del 30%. La Sace ha mantenuto stretti rapporti con le autorità iraniane perché sta pazientemente recuperando 600 milioni di crediti derivanti dagli indennizzi liquidati a imprese italiane che non erano state pagate per via delle sanzioni. «Ora se i termini dell’accordo saranno rispettati, potremo garantire nuovi flussi di export e facilitare gli investimenti in loco delle aziende italiane», dice Castellaneta. Investimenti che in passato erano grandiosi: la Danieli costruì due acciaierie negli anni ’90 ad Esfahan e Yadz, l’Italimpainti altre due negli stessi anni, la Selta di Piacenza realizzava in Iran l’8% del fatturato con il software per la trasmissione intelligente dell’energia e le telecomunicazioni. «Abbiamo dovuto lasciare posto ai concorrenti cinesi per i quali non c’è embargo che tenga», dice amareggiato Carlo Tagliaferri, presidente della Selta. «Ora recuperare il terreno non sarà facile ma ce la metteremo tutta». E Alberto Bregante, che costruì Bandar Abbas con l’Italimpianti e oggi è a capo della Sms Innse, sempre ingegneria civile, aggiunge: «I tecnici siderurgici si sono formati a Piombino, Taranto, Terni. Parlano italiano e non vedono l’ora di ricominciare a lavorare con noi». Ma il fattore che può ampliare esponenzialmente il business è il petrolio. L’Eni sbarcò a Teheran ai tempi di Mattei, che si conquistò un posto nei libri di storia a fianco di Mossadeq, il primo ministro che guidò lo sviluppo del Paese nel dopoguerra. L’Iran ancora nel 2011 era il quarto fornitore di greggio per l’Italia con 9,1 milioni di tonnellate (il 12,5% dell’import) e un valore di 5,1 miliardi. Nel 2012 le forniture scesero del 64% per cessare l’anno dopo. Quattro impianti (South Pars, Darquain, Dorood e Barar) costruiti dall’Eni, sono stati consegnati agli iraniani in questi anni, l’ultimo a fine 2014: per gestire i pagamenti con partite di petrolio è rimasto aperto l’ufficio di Teheran che ora potrà avere ben altre funzioni sempre che l’Iran, che con 156 miliardi di barili detiene le seconde riserve mondiali dopo l’Arabia Saudita, modifichi le sue clausole contrattuali, finora legate al buyback (il partner occidentale deve accollarsi tecnologia e sviluppo dei pozzi), in favore dello standard internazionale production sharing. L’unica assenza di rilievo è quella della Fca: Sergio Marchionne, vista la nuova “cittadinanza” americana, non ha voluto creare imbarazzi diplomatici perché lo sblocco delle sanzioni deve essere ancora ratificato dal Congresso. Ma l’azienda nel 2005, quando si chiamava ancora Fiat, aveva concluso con l’iraniana Pars un accordo per la costruzione di un impianto da 275 milioni di dollari in grado di produrre fino a 100mila auto l’anno del modello Siena progettato appositamente. Non se ne è fatto nulla, ma ora c’è l’occasione per riavviare il discorso.