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 2015  agosto 05 Mercoledì calendario

I commenti. Per Dario Di Vico del Corriere della Sera «il nuovo consiglio di amministrazione è di serie B», Ceccarelli su Repubblica parla di «una Rai fondata sull’equivoco», Messina di lottizzazione, Brambilla sulla Stampa rievoca il «manuale Cencelli» – sia pure in versione 2.0 – e Travaglio dice che «a parte Carlo Freccero – che era troppo impegnato a fare televisione e a insegnarla all’università, dunque ne fu presto scacciato perché troppo indipendente e competente – gli altri sei consiglieri Rai usciti ieri dal cilindro dei partiti travestiti da commissione di Vigilanza vengono tutti dalla politica o dal sottobosco politico. Eppure l’altro giorno Renzi strillava “Fuori i politici dalla Rai”»

Corriere della Sera
Le verità amare conviene dirle subito piuttosto che affidarsi a lunghe e ipocrite perifrasi: il nuovo consiglio di amministrazione della Rai è di serie B. Del ventilato progetto di copiare la Bbc è rimasta solo la prima lettera. Pur con il dovuto rispetto alle singole persone che ieri sono state nominate alla guida di Viale Mazzini, leggendo e rileggendo la lista non si può che arrivare a questo giudizio.Francamente non ci pare che il nuovo consiglio si sia dotato di quei profili professionali e di quelle competenze che dovrebbero servire alla Rai in una stagione che sarà caratterizzata da profonde discontinuità tecnologiche e da rimescolamenti degli assetti di mercato. Mancano figure con esperienze aziendali/gestionali significative o che comunque ne sappiano di televisione. L’unica eccezione è Carlo Freccero, di cui si potranno condividere o meno le sortite nei talk show ma che sicuramente conosce i ferri del mestiere. Il resto è composto per lo più da giornalisti della carta stampata in una singolare rivincita romana dei nipotini di Gutenberg sul mezzo televisivo.

L a responsabilità di una scelta così sottotono è sicuramente del segretario del Pd che avrebbe potuto individuare ben altre opzioni pescando nel bacino di competenze tecniche e intellettuali che ancora gravitano attorno al suo partito e invece si è limitato ad accontentare le componenti a lui vicine. Per sé poi ha riservato una nomina iper-gigliata, quella di Guelfo Guelfi, che nel curriculum oltre la conduzione della vittoriosa campagna elettorale per il Comune di Firenze, vanta la presidenza del Teatro Puccini e, soprattutto, il ruolo di direttore creativo di Florence Multimedia (una società in house che cura la comunicazione della Provincia di Firenze). I maliziosi dicono che il premier abbia deliberatamente deciso di mandare il consiglio Rai in serie B perché gli basta un uomo solo al comando, i l prossimo direttore generale Antonio Campo Dall’Orto i cui poteri saranno ulteriormente ampliati dalla riforma in gestazione alle Camere. Colpisce in parallelo che il centrodestra abbia rinunciato a rinominare Antonio Pilati, una figura di assoluta competenza e vero ispiratore della legge Gasparri. I bene informati assicurano che i berlusconiani si sono comportati così proprio per assecondare, in una logica da «piccolo Nazareno», il disegno ribassista del premier.
Il giudizio negativo sulla composizione del consiglio non può però oscurare il fatto politicamente nuovo prodottosi ieri con la designazione di Freccero da parte dei Cinquestelle, che si ritrovano ad avere il presidente della commissione di Vigilanza (Roberto Fico) e il consigliere più titolato. Non ci sono precedenti di un simile coinvolgimento dei grillini ed è singolare che abbia come terreno di gioco la Rai, se non altro perché così rinverdiscono una tradizione della Prima Repubblica. Che all’occorrenza utilizzava Viale Mazzini come laboratorio politico. È presto per sapere che frutti produrrà l’esperimento, va comunque seguito con attenzione se non altro perché i Cinquestelle restano un elemento-chiave del paesaggio politico italiano.
Dario Di Vico
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la Repubblica
L’Italia è una repubblica fondata sull’equivoco. Ma la Rai ancora di più.
Ecco dunque l’esordio dell’ennesima, preannunciata e conclamatissima palingenesi che già da oggi vuole l’azienda finalmente “restituita al Paese”, come twittava nei mesi scorsi il presidente Renzi, o addirittura, secondo un’altra social-lectio, “ai cittadini”.
E guai a chi sorride, seppure con rassegnazione. Il “Servizio pubblico”, d’altra parte, resta vincolato ad ammiccanti maiuscole e beffarde virgolette. Ci sarà tempo per ricostruire con la dovuta cura la rapida marcia d’avvicinamento dell’ultimo Conquistador verso la tv di Stato, periodico bottino di guerra, preda di spogli e di razzie del potere.
Ma fin d’ora la tentazione sarebbe quella di prendere le mosse da quell’altro mutilatino digitale trasmesso alla rete dal giovane premier nel maggio 2014: “Niente paura, futuro arriverà anche alla Rai. Senza ordini dei partiti”. Là dove, mettendo per un attimo da parte il ruolo dei corpi intermedi, l’ipotesi maliziosa è che Renzi, peraltro in quei giorni reduce da un corpo a corpo con Floris a “Ballarò”, fosse in realtà inferocito con la Rai, i suoi burocrati e i suoi regolamenti per il divieto di esibirsi in diretta alla “Partita del Cuore” – e magari di fare anche gol.
Ciò detto, viale Mazzini è per sua natura e vocazione piuttosto arrendevole ai potenti di turno. A volte lo è a tal punto da prenderli addirittura prigionieri, come dimostrano un paio di remoti dossier dei servizi segreti e alcuni più recenti cicli di intercettazioni telefoniche che documentano come all’occorrenza il “servizio pubblico” – ah-ah! – si trasformi in una sorta di alcova di Stato. In questo senso, nell’arco ormai di un trentennio, timoratissimi democristiani, vitalisti craxiani e famelici post-fascisti potrebbero recare illuminanti testimonianze sui propri sviluppi sentimentali, per così dire, sovrapponibili a quelli dell’azienda radiotelevisiva.
Per quanto riguarda Berlusconi, beh, anche lui qualcosina pure su quel versante sarebbe certamente in grado di aggiungerla. “La Rai – era la formula che condensava il programma del Cavaliere – va ripresa in mano”. Dopo di che, al netto degli impicci politici, dei magheggi economici, delle nomine scandalose e perfino della “Struttura Delta” (una cricca di dirigenti che dall’interno facevano in buona sostanza gli interessi di Mediaset), ecco, ben presto si comprese che fra i principi non negoziabili di quel salvifico programma rientrava di piazzare un certo numero di avvenenti attrici amiche del premier nelle varie fiction.
Una signorina piuttosto insistente ebbe un posto anche in un “Padre Pio”. Mentre il designato consigliere d’amministrazione di Forza Italia, già fondatore dell’”Associazione del Buongoverno” – ed è detto tutto – fu pizzicato sempre per telefono a caldeggiare le ragioni di una fiction prodotta dalla sua compagna e dedicata niente meno che a “La meravigliosa storia di Suor Bakhita”, l’ex schiava africana menzionata in un’enciclica di Benedetto XVI e appena salita agli onori degli altari.
Umberto Bossi, d’altra parte, era andato in fissa e aveva puntato tutte le sue fiches-Rai sul “Barbarossa”, costosissimo polpettone di mitopoiesi archeo- padana. Come Mussolini ai tempi di “Scipione l’Africano” e poi Andreotti durante la lavorazione di “Ben Hur”, il leader leghista e ministro delle Riforme volle anche visitare il set, in Romania, trovandolo affollatissimo di comparse rom. Per compiacerlo, previa segnalazione di alacri uffici romani, la produzione ritenne opportuno di regalare a Bossi anche una particina, un cameo, vestito da nobile lombardo. Il “Barbarossa” venne infine presentato e proiettato al Castello Sforzesco in una serata di gala, con bracieri, figuranti in costume e pure un guerriero a cavallo.
Questa è insomma la Rai. Per capirsi. E seppure in certi giorni si è portati a credere che l’unica sensata idea sarebbe quella non tanto di venderla, ma di abolirla del tutto, la retorica del comando, con quel tanto o quel troppo di ipocrisia che comporta, vuole che chi ci mette le mani sopra ne farà comunque un gioiello di rinnovamento, anzi di rinascimento, di autonomia, di trasparenza, di cultura e così via.
Donde l’ennesimo e mirabilissimo “Raibaltone”, neologismo che tuttavia risulta segnalato già vent’anni orsono nel dizionario “Novelli-Urbani”, nonché censito nel 1999 da Enzo Golino e dal glottologo Fabio Rossi. L’uso ventennale di tale formula conferma come l’azienda sia destinata o condannata, se si vuole, a restare animatissimo serraglio, hortus conclusus, campo di battaglia e terreno di coltura dei nuovi equilibri, specchio, ma anche stagno, palude e perfino “cloaca” – in tal modo la definì a fine esperienza il professore berlusconiano di Suor Bakhita – del potere.
Si apre così, non proprio sotto i migliori auspici, l’era del giovane Renzi che fino a qualche mese fa voleva restituire la Rai al Paese e ai cittadini. E non si sa se ci credeva davvero, e se ancora ci crede pure lui.
Filippo Ceccarelli

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La Stampa

Una volta si chiamava manuale Cencelli: si distribuivano le poltrone dopo un certosino calcolo sulle percentuali dei partiti e perfino delle correnti, e nessuno restava fuori. C’era il pregio della sincerità: i vecchi politici non nascondevano la spartizione, anzi si facevano un vanto di aver portato a termine piccoli capolavori di equilibrio. Non era neanche un disegno di potere: il disegno era il potere stesso. Però tutto alla luce del sole.
Il consiglio di amministrazione della Rai nominato ieri viene invece definito dal premier un insieme di «professionalità di livello, competenza e indipendenza, com’è giusto che sia». Sarà senz’altro vero, ci auguriamo che la prova dei fatti dia ragione a Renzi, e torto a noi. Però chissà perché a dare una scorsa ai curriculum dei sette nominati abbiamo l’impressione che, più che alle competenze, si sia prestata attenzione alle appartenenze. Ce ne sono tre del Pd, naturalmente rispettando le quote fra maggioranza e minoranza del partito; uno degli alleati di governo dell’Ncd. 
Due dell’opposizione di destra (Forza Italia) e uno dell’opposizione di sinistra (Cinque stelle e Sel).
Ma sull’indipendenza, passi: nessuno si faceva illusioni. Restavano però «la professionalità di livello e la competenza». E qui appare abbastanza evidente che, fra i sette nuovi consiglieri, l’unico professionista di livello competente in materia è quello voluto da Cinque Stelle e Sel, e cioè Carlo Freccero. Gli altri? Certamente brave persone, anche ottimi professionisti in altri campi, ma piuttosto a digiuno di televisione: giornalisti della carta stampata, sindacalisti della Fnsi, spin doctor di campagne elettorali, professori universitari; spesso ormai prossimi alla settantina. Che ne possono sapere della nuova tv dell’era digitale? Della sfida di Netflix? 
Con queste nomine il governo non ha la garanzia di «una tv pubblica di grande respiro», sempre per citare le promesse di Renzi; ha la garanzia di non avere grane in Parlamento. Eppure, per mesi si era parlato di riforma della Rai, di nuove logiche, di una tv 2.0. Certo, la riforma sarà varata tra poco, ma proprio per questo la nomina del cda appare un’occasione sprecata. Si poteva aspettare un mese o due: invece, per convenienza politica si è preferito nominare il nuovo consiglio con la vecchia legge Gasparri. Più che ricambi, i nuovi consiglieri sembrano dei rincalzi.
Il Renzi che ha gestito il cambio ai vertici della Rai non sembra neppure un lontano parente di quello che vedemmo il 13 settembre del 2012 a Verona, quando lanciò la sua candidatura «per i prossimi cinque anni alla guida del Paese»; e ancor meno quello che solo cinque mesi fa aveva detto «fuori i partiti dalla Rai». E questa è la delusione più grossa. Con Renzi si era sperato in una nuova, rivoluzionaria stagione. Nessuno nega gli sforzi compiuti, ma per tante cose siamo ancora alla Prima Repubblica: il governo si regge in fondo su una non-sfiducia (quella dei verdiniani) di andreottiana memoria, fondata su non-trascurabili non-divergenze; e per gestire il potere si usa il Cencelli. Magari 2.0, ma pur sempre un Cencelli.
Michele Brambilla

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il Fatto Quotidiano
“Fuori i politici dalla Rai”, strillava Matteo Renzi un giorno sì e l’altro pure, promettendo “il modello Bbc”. Infatti, a parte Carlo Freccero – che era troppo impegnato a fare televisione e a insegnarla all’università, dunque ne fu presto scacciato perché troppo indipendente e competente – gli altri sei consiglieri Rai usciti ieri dal cilindro dei partiti travestiti da commissione di Vigilanza vengono tutti dalla politica o dal sottobosco politico. E non è certo colpa della legge Gasparri che, sì, consegna il cosiddetto servizio pubblico nelle mani del governo di turno, ma non impone certo ai partiti di nominare portaborse, addetti stampa, ex deputati o candidati trombati. Volendo, si possono sempre mandare nel Cda personaggi di alto profilo e soprattutto di provata indipendenza e competenza, come del resto prevedrebbe la legge; come ieri aveva suggerito Milena Gabanelli sul Corriere, dopo aver declinato ogni incarico, invocando candidati muniti di un curriculum di successo; come hanno fatto i 5Stelle e Sel, votando l’ex direttore di Canale5, Italia1, La Cinq, Raidue, Raisat e Rai4, uno che in qualsiasi altro paese dirigerebbe il primo canale pubblico in attesa che arrivi qualcuno più capace di lui, cioè a vita; e come aveva tentato di fare la minoranza Pd, indicando Ferruccio de Bortoli, che ha diretto due volte il principale quotidiano italiano dimostrando assoluta indipendenza sia da B. sia da Renzi, e che proprio per questo è stato scartato a priori dal Politburo fiorentin-rignanese.
Il Pd, complici il duo Ncd-Udc e gli avanzi della destra, ha preferito una spartizione che più vecchia e squalificata non si può, perpetrando il peggior Cda mai visto in Viale Mazzini (dove pure s’era visto di tutto, o almeno così si pensava). Una triste brigata di mediocri carneadi che fa rimpiangere persino la prima Rai berlusconiana della Moratti e di Billia: tutta gente che non distingue un televisore da una lavapiatti o da un forno a microonde. I curricula (con rispetto parlando) dei Magnifici Sei parlano da soli. Specialmente dei tre targati Pd, che avrebbero dovuto dare il segno della rottamazione e del cambio di passo del giovane Renzi. La biografia di Guelfo Guelfi sfiora a stento le due righe: fiorentino, pubblicitario, ex Lotta continua amico di Sofri, spin doctor elettorale di Matteo, presidente del Teatro Puccini e direttore della società di comunicazione della Provincia “Florence Multimedia”. Perbacco.
Rita Borioni sfugge proprio ai radar: laureata in storia dell’arte, pare che dia ripetizioni a Orfini; è stata pure portaborse di vari deputati e senatori Ds e Pd, oltreché “autrice e conduttrice di Red Tv”, la tv clandestina del Pd, il che è di buon auspicio per gli ascolti futuri di Mediaset e di La7. Franco Siddi è l’ex segretario della Federazione della stampa e ha scritto per varie testate sarde. B. e i suoi servi optano invece per Arturo Diaconale, direttore del samiszdat L’Opinione di cui sfuggono i lettori ma non i fondi pubblici, editorialista de il Giornale, ma soprattutto commissario e presidente del Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga nonchè ex candidato trombato del Pdl; ha anche “promosso la trasformazione della Stazione Vigna Clara di Roma in PalaOpinione dove ha presieduto oltre venti convegni”. Parbleu. Sempre in quota FI ecco Giancarlo Mazzuca, anche lui giornalista, che fu al Giornale e a La Voce con Montanelli per poi passare con gran coerenza alla Camera con B. e candidarsi senza successo a governatore d’Emilia Romagna; ha pure diretto Il Carlino e il Giorno. Completa il quadro il centrista Paolo Messa, nomen omen, docente nientemeno che di “Intelligence economica”, direttore del Centro Studi Americani, fondatore del mensile Formiche, ma soprattutto ex consigliere del Consorzio Nazionale Imballaggi che ne fa un magistrale esperto di tv, anche perché ha curato una campagna elettorale di Fitto e diretto l’ufficio stampa dell’Udc di Casini, senza dimenticare un libro sulla Dc con prefazione di Andreotti. Mai più senza.
Se tutto ciò ancora non vi basta, state pronti per l’imminente arrivo alla direzione generale di Antonio Campo Dall’Orto, che si distingue da Raffaella Carrà per la mancanza di talento ma non del caschetto biondo: quando Enrico Letta sembrava in auge, non mancava a un appuntamento del suo think tank “VeDrò”, salvo poi impalmare la più sicura Leopolda renziana. Lì era tutto un inneggiare alla meritocrazia, infatti lui ha grandi meriti televisivi: quando dirigeva La7, riuscì ad accumulare perdite per oltre 100 milioni di euro all’anno, poi bastò che se ne andasse perché scendessero a 67. Il che gli valse il soprannome di Antonio Buco Nell’Orto, o Er Groviera. Fece in tempo a chiudere in anticipo il programma satirico Decameron di Daniele Luttazzi perché aveva osato fare una battuta su Giuliano Ferrara e ne minacciava altre sul Papa, la qual cosa – un satirico che fa satira – lo sconvolse non poco. Per la nuova Rai, è una garanzia. L’amico Matteo ha già fatto sapere come vuole i nuovi palinsesti: “Basta talk show gridati” (i pochi che lo criticano), sotto con i “programmi in positivo” (i tanti che lo leccano), “meno ansia e più servizio pubblico”. Ottimismo obbligatorio, tutto va ben madama la marchesa. Favoritissimi per i tg Orgasmo D’Angelis (che ieri sull’Unitàsi portava avanti col titolo “Via col vento”) e Johnny Lecchino Riotta. Si raccomanda di tirare l’apposita linguetta.

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la Repubblica

Tutto qui? Uno scorre la lista del nuovo cda Rai e scopre che sono stati nominati due spin doctor, una collaboratrice parlamentare, un sindacalista e due giornalisti del coro berlusconiano.
Più Carlo  Freccero, l’unico vero esperto di televisione, il quale fa venire in mente la vecchia battuta che raccontava perfettamente la lottizzazione ai tempi del penta-partito: se ci sono cinque posti, bisognava assumere un democristiano, un socialista, un comunista, un socialdemocratico e uno bravo. Ecco, Freccero è quello bravo (e chapeau ai grillini che l’hanno fatto eleggere, benché nel 2013 lui avesse detto che votava Ingroia alla Camera e Pd al Senato).
Ma gli altri? Chi sono? Da dove vengono? Quali competenze portano? La prima cosa che salta agli occhi è che sono tutti targati. Ciascuno di loro rappresenta un partito, a cominciare da Paolo Messa che è stato il capoufficio stampa dell’Udc, oltre ad aver diretto le campagne elettorali pugliesi di Marco Follini e di Raffaele Fitto, insomma uno di quei giovani svegli che hanno fatto carriera da democristiani quando la Dc era già scomparsa da un pezzo, navigando abilissimamente nel sottobosco del potere.
L’altro spin doctor, Guelfo Guelfi, più che un partito rappresenta il suo leader, di cui è un tifoso dichiarato: «Renzi è l’uomo del presente e del futuro», ama ripetere. E anche se il suo curriculum comincia con la presidenza del teatro Puccini di Firenze, tutti sanno che il vero titolo di merito di questo vulcanico settantenne che viene da Potere Operaio sono le sue 18 campagne elettorali — da quella di Vannino Chiti a quella di Renzi — e soprattutto l’ultima.
Poi c’è l’unica donna, Rita Borioni. “Storica dell’arte” senza cattedra, però con un posto di assistente del senatore Andrea Marcucci e con un lungo passato di collaboratrice dei gruppi del Pd che evidentemente — insieme a una conduzione- lampo di un programma nella web-tv della Ditta, “Red Tv” — devono bastare a qualificarla come esperta di televisione. Il terzo nome del Pd è quello di Franco Siddi, già segretario di lungo corso della Federazione nazionale della stampa, che della Rai s’è finora occupato solo come sindacalista.
Il centro-destra berlusconiano è riuscito miracolosamente — grazie alla sistematica dissociazione della minoranza dem — a far eleggere non uno ma due consiglieri. E anch’esso — nessuno si aspettava il contrario — ha mandato nel cda due giornalisti militanti come Giancarlo Mazzuca e Arturo Diaconale, il primo ex deputato del Pdl e il secondo ex candidato del Polo, due voci che sia pure con tonalità diverse cantano da sempre nel coro berlusconiano.
Infine c’è Freccero, l’unico che abbia un passato televisivo di tutto rispetto — ha guidato Italia 1, Rai2, Rai4, RaiSat ma anche La Cinq, France2 e France3 — e anche l’unico di cui si possa dire che conosce la televisione come le sue tasche. Ma è uno su sette. Senza voler togliere nulla a nessuno, gli altri sei sono nomi che riflettono la debolezza della politica di fronte all’eterna tentazione del potere televisivo. Nella giostra del totonomine erano finiti i nomi di Paolo Mieli, di Giulio Anselmi, di Ferruccio de Bortoli, storie diverse ma accomunate da un’indiscutibile indipendenza dal potere politico. Le scelte che sono state fatte ieri vanno nella direzione opposta, confermando ancora una volta che i partiti non hanno alcuna intenzione di ritirarsi dall’occupazione del servizio pubblico televisivo. La verità è che siamo di fronte all’eterno ritorno del sempre uguale, al trionfo della vecchia lottizzazione, condannata a parole e praticata nei fatti. Uno a me, uno a te, uno a lui e uno bravo. Del resto, era difficile attendersi qualcosa di diverso, applicando una legge Gasparri che nel ventennio berlusconiano fu pensata, scritta e approvata proprio per istituzionalizzare la lottizzazione della Rai.
Adesso tocca a Renzi la mossa decisiva, e al tempo stesso la più difficile: scegliere un direttore generale di grande competenza e un presidente autorevole. Se il primo nome sarà quello di Antonio Campo Dall’Orto, il quarantenne che ha inventato un network di successo come Mtv, metà dell’opera sarà stata compiuta: alla Rai nulla oggi è più utile di un giovane manager che sappia coniugare coraggio e innovazione, sottraendola alla spregiudicatezza della tv commerciale per restituirle il ruolo fondamentale di servizio pubblico. Ma sarà quella per il presidente — che dovrà avere i voti dei due terzi della commissione di vigilanza — la scelta più complicata. Serve un nome forte che dia il segno di una svolta, non un grigio garante dei partiti. Serve che Renzi, ripetendo il capolavoro del Quirinale, tiri fuori dal suo cilindro un presidente al di sopra delle parti, non al di sotto. Applicando alla Rai il metodo Mattarella.
Sebastiano Messina