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 2015  agosto 03 Lunedì calendario

Maureen Dowd, l’anti-Clinton. La cronista della Casa Bianca prediletta da Bush padre, odia Bill e Hillary. Ma è scrivendo (male) di loro che è diventata famosa, con i suoi feroci racconti sul presidente piacione si è guadagnata anche un Pulitzer. E ora la sua penna avvelenata se la prende con l’ex first lady descrivendola come «un’icona golosa che sguazza nei finanziamenti di retrivi Paesi mediorientali». Ovviamente lei fa il tifo per Biden, ma senza i Clinton che ne sarebbe della sua brillante carriera?

Al netto dell’interesse per le inimicizie femminili. Al netto di polemiche che paiono costruite per essere vendute in saldo al Paradiso del Misogino. Al netto dell’acredine dell’una e del gelo dell’altra, sullo scarso affetto dell’editorialista Maureen Dowd verso Hillary Clinton c’è da sapere che: (1) Maureen Dowd è amica personale del vicepresidente Joe Biden e tifa perché si candidi. E (2) Maureen Dowd non odia Hillary Clinton. Piuttosto, (3) Maureen Dowd odia tutti e due i Clinton. Ma in qualche modo è legata a loro, è scrivendo di loro che è diventata famosa. 
Prima, era una celebrità washingtoniana, la più brillante colorista a seguire la Casa Bianca per il New York Times, liberal ma prediletta da George Bush padre, da lei sempre chiamato -sul giornale- «Poppy». Dopo Poppy, nel 1992, arriva dall’Arkansas una coppia poco più grande di lei (Bill è del ’46, Hillary del ’47, Dowd del ’52); interessante, intrigante (nel senso che ogni minuto saltava fuori qualche loro intrigo), arcinemica dei giornalisti. Dowd viene ignorata, come quasi tutti. Se la prende, più di tutti. Si dedica a raccontare con ferocia il presidente piacione e la first lady co-presidenziale. 
Non si sa se la faida abbia reso migliori i Clinton. Di certo, nei due mandati di Bill, Dowd scrive cose ispirate, con penna alla Mark Twain. Tutti i nerd politici di una certa età, a Washington, ricordano quando nel 1994 demolisce il simpaticamente ipocrita leader del mondo libero con un incipit: «Il presidente Clinton è tornato oggi a Oxford per un viaggio sentimentale nell’università dove non aveva aspirato, non aveva fatto il militare, non si era laureato». Sottotesto: i Clinton mentono. Bill ha evitato la leva e la guerra in Vietnam, a volte gonfia il suo curriculum, ci sono testimoni del suo consumo di marijuana ma lui dice di averla fumata senza inalare. 
Successivamente: Clinton, ufficialmente, mente. È il 1998, la stagista Monica Lewinsky ha «rapporti impropri» con il presidente nello Studio Ovale, lui nega, ma era una bugia. Dowd ne scrive nonstop, e vince un premio Pulitzer. Ma anche lei ha i suoi momenti di incoerenza. Prima accusa Clinton e il suo staff di lavorare per distruggere una povera ragazzina descrivendola come una pazza e una stalker. Poi lei stessa si fa prendere la mano, e la descrive come una pazza e una stalker. La paragona a Glenn Close ossessionata e coltellomunita nel film Fatal Attraction. La prende selvaggiamente in giro immaginando sue fantasie da scemotta innamorata di Bill e dei dolciumi. Lewinsky ha detto in seguito di averla soprannominata «Moremean», «piùcattiva» Dowd. 
Cattiva anche con le femministe che (come lei, alla fine) «avevano buttato sotto l’autobus» Lewinsky per salvare il presidente democratico: «Se decidi che è Ok sacrificare le singole donne a obiettivi più importanti, crei un precedente pericoloso». 
Come finisce, si sa. Dopo una censura del Congresso, Bill Clinton conclude il secondo mandato tra i rimpianti generali, per gli otto anni buoni per l’America, per la sua economia e la sua cultura pop. Hillary è popolarissima in quanto moglie tradita e leale, e viene eletta senatore di New York. Dowd guadagna bene e – gran soddisfazione per la figlia di un poliziotto di servizio al Congresso – compra la casa a Georgetown dove viveva John Kennedy da senatore del Massachusetts. 
Negli anni di Bush junior, Hillary fa il senatore disciplinato, è determinatissima a correre per la Casa Bianca nel 2008. Dowd è columnist celebrata, si fidanza brevemente con lo sceneggiatore di The West Wing Aaron Sorkin, scrive un libro su Bush. Poi ne scrive un altro, intitolato Are Men Necessary?, «Gli uomini sono necessari?», nel 2005. 
È il solito saggio su maschi e femmine scritto per vendere, non manca un passaggio anti-Clinton. Su Hillary che appoggia il suo «bugiardo, traditore, cacciatore di tanga» marito Bill e diventa così, paradossalmente, una star femminista. Ma così è andata. 
Hillary è diventata un idolo, una candidata alla Casa Bianca che senza Barack Obama ce l’avrebbe fatta, un segretario di Stato. Dowd è tuttora un’editorialista capace e ultra-sagace; una primadonna dei media che è l’opposto di Hillary, è troppo loquace, parla troppo in prima persona, a volte fa figuracce (se Clinton fosse andata in Colorado e avesse mangiato troppi dolcetti alla cannabis non l’avrebbe raccontato sul New York Times, per dire). 
Ma continua a combattere, come una commentatrice-capitano Achab, contro la coppia-balena bianca Moby Dick-Clinton, da trentatré anni e più. Dubita della candidatura di lei, della «golosità di un’icona femminista americana che sguazza nei finanziamenti di retrivi Paesi mediorientali». Attacca la fondazione di famiglia: «Ci si chiede di credere che ogni dollaro donato ai Clinton è un dollaro che migliorerà il mondo. Ma lo è davvero? Clintonworld è una galassia dove l’affermazione politica e l’arricchimento personale si mescolano senza sosta». 
Spinge l’amico Biden, irlandese e chiacchierone come lei. Sabato ha scritto un editoriale straziante su di lui e sul figlio Beau che in punto di morte gli chiedeva di candidarsi. Nello stesso editoriale ha citato come possibile candidato anche Howard Schultz, il fondatore della catena di bar Starbucks. Tutto tranne i Clinton. 
Per i Clinton, se succedesse, sarebbe la sconfitta finale. A quel punto, magari, Dowd verrebbe mandata in pensione. E ci si dovrebbe accontentare di faide con personaggi più modesti, e peggio scritte, in America.