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 2015  luglio 31 Venerdì calendario

«Sono eccezionalmente scontenta di come vanno le cose». Parla Franca Valeri. A 95 anni la Signorina Snob non riconosce più la sua Italia, oramai la «gente gira su sé stessa senza costrutto, facendo solo rumore», si dispera perché i giovani «non sanno cosa vogliono» e «la televisione ha da tempo perso il cervello». Comunque «sono malata di ottimismo e non voglio guarire. Qualcosa accadrà»

«Sono eccezionalmente scontenta di come vanno le cose. In teatro, che considero il mio mondo, dove ormai sembra sia impossibile combinare qualcosa. Nella vita, dove incontri persone sopra le righe, su di giri, fuori misura, gente incapace di concentrarsi e che non sa cosa vuole. Nella cosa pubblica, dove le categorie della politica e del sociale sono minate dall’ambizione, dal tornaconto, dalla corruzione. Trovo qualcosa da festeggiare solo se ripercorro la mia vita: sono stata fortunata, ho attraversato il dolore, ma anche epoche in cui aver testa, spirito e coraggio contava qualcosa».
Milanese, Franca Maria Norsa, in arte Franca Valeri (in omaggio a Paul Valery), compie oggi 95 anni. Nella sua casa di Trevignano, sena mai separarsi dal cane Roro, va terminando un nuovo libro per Einaudi. Non ha ancora deciso il titolo: «È una specie di saggetto sui tempi che stiamo vivendo, un punto interrogativo sulla felicità al quale non trovo risposta».
Settant’anni di lavoro fra palcoscenico, set, studi tv, scrivania. Dalla creazione di un personaggio all’interpretazione dello stesso. La meneghina “signorina Snob” e la romanissima signora Cecioni, che spesso rivediamo in bianco e nero, a notte tarda, sul piccolo schermo, fanno parte a buon diritto del costume italiano del secondo Novecento. Dalla scrittura di una commedia a una regia lirica, da un varietà alle altre occupazioni che un’artista come lei, anomala, ironica, dissacrante, ha fin qui inanellato, lo spirito e l’intelligenza della Valeri non avvertono il tempo. La signora ha la spinta vitale di una ragazza e l’umorismo dei Gobbi, la mitica compagnia nella quale esordì nel 1942, nonché la verve di quel cabaret di classe capace di non cadere nella volgarità.
Il novantacinquesimo compleanno?
«Non ci penso più di tanto. Ci penserei ancora di meno se mi facessero lavorare. Continuo a scrivere, ma poi le cose non arrivano in palcoscenico. Vorrei anche recitare».
Quante Italie ha “massacrato”, come Snob e come Cecioni?
«L’ho fatto quando era possibile farlo. Adesso non ho più illusioni. L’Italia la vedo male, un paesaccio. Al Nord si sta un po’ meglio che a Roma, ma niente di paragonabile a certi splendidi ricordi degli anni Cinquanta, quando vivere a Milano, o a Roma, nelle nostre belle città era una meraviglia. Esistevano la povertà e la fatica assieme alla buona educazione e alla signorilità».
Come definirebbe l’Italia dei suoi due celebri personaggi, la settentrionale con il naso troppo sensibile e la popolana capitolina in ciabatte e sempre al telefono?
«Era un Paese in movimento, lo dico oggettivamente, senza rimpiangere nulla. Avevamo addosso un’euforia incredibile. Eravamo liberi di pensare, creare, realizzare. Eravamo pieni di speranza».
E adesso?
«Non è la mia Italia. Allora la folla era quella delle idee, oggi la folla è di gente che gira su sé stessa senza costrutto, facendo solo rumore. Allora le idee erano davvero tante, oggi sono poche, pochissime. Nel mondo del teatro non c’era ricchezza, però un’ebollizione incredibile. Cercavamo il Nuovo e volevamo indebolire il Vecchio, prenderlo a bordate. Ma con il martello delle idee».
Pure, oggettive considerazioni? È sincera?
«Io sono un’ottimista sistematica. Non riesco a convincermi che non esistano più giovani capaci di sperare. Ci saranno, mi dico, da qualche parte. Impossibile che il mondo ne sia stato completamente defraudato... Nessuna nostalgia, in tutta sincerità. Il rimpianto è sempre sterile. Solo mi meraviglio. Non riesco a credere».
Conosce bene i giovani di oggi?
«Li amo e ne sono riamata. Vengono in visita, mi raccontano le loro cose, fanno confidenze. Li trovo delusi in partenza. Senza coraggio. E non sanno cosa vogliono».
Ci sarà un nuovo Rinascimento?
«Bè, uno intero non credo. Magari un mezzo».
Moglie di Socrate; mamma stravagante con Urbano Barberini; sorella terribile assieme alla Guarnieri; vecchia signora che vive in simbiosi con la propria stufa; coscienza critica nel recente “Il cambio dei cavalli”: il teatro è ancora la sua casa. Che pensa, invece, della televisione e del cinema?
«La televisione ha da tempo perso il cervello. Lei provi ad avere qualche ora a disposizione, una sera, e tenti di trovare qualcosa da vedere in tv. Catastrofe. Niente di niente. Se poi le sere libere diventano un po’ di più, magari riesce ad affezionarsi a qualche personaggio di una fiction. Però finisce lì».
E il genere comico? La tv, a suo tempo, le ha dato immensa popolarità proprio in questo settore.
«Per carità. Dove stanno i copioni? Il Comico deve essere scritto, non improvvisato. La sua efficacia viene da un buon testo. Si può aggiungere qualcosa sul momento, ma giusto qualcosa. Ricordo, ad esempio, la volta che mi venne spontaneo il famoso “cretinetti”. Ero sul set del Vedovo, con Sordi. A Dino Risi, il regista, piacque talmente quel termine che me lo fece dire e ridire lungo tutto il film. Quando serve, lo dico ancora. Ora non ci sono più programmi, film o spettacoli che siano o diventino fatti culturali, di costume. Abbiamo mollato gli ormeggi».
Che fare?
«La delusione e il disagio li ho visti anche tanto tempo fa. Mio padre, certi miei professori, di fronte all’Italia di allora erano disperati. Poi c’è stata la guerra. Lungi da noi il pericolo di una guerra, anche se in giro, nel mondo, ce ne sono tante. In Europa, non siamo nemmeno i più sfortunati. Comunque, ripeto, sono malata di ottimismo e non voglio guarire. Qualcosa accadrà».