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 2015  luglio 31 Venerdì calendario

«I contraccettivi non sempre devono essere considerati illeciti». È questa la conclusione del seminario internazionale di tre giorni a porte chiuse convocato dal Pontificio Consiglio per la Famiglia in vista del prossimo Sinodo dei vescovi. Nel volume pubblicato dalla casa editrice della Santa Sede l’apertura di alcuni teologi: anche sulla procreazione assistita la posizione della Chiesa può cambiare

Non sempre la contraccezione deve essere considerata illecita. Può essere morale, infatti, il ricorso a tecniche artificiali di regolamentazione delle nascite, e immorale la pratica dei metodi naturali laddove venissero impiegati con un obiettivo costantemente contraccettivo. E la riflessione si potrebbe applicare anche al campo della procreazione medicalmente assistita. Sono le conclusioni del seminario internazionale di tre giorni a porte chiuse convocato dal Pontificio Consiglio per la Famiglia in vista del prossimo Sinodo dei vescovi. Oltre a una proposta, di cui Repubblica ha scritto settimana scorsa, che porterebbe i divorziati risposati a ricevere l’eucaristia, nella tre giorni teologica di febbraio e marzo scorsi – i risultati sono pubblicati dalla Libreria Editrice Vaticana all’interno del volume intitolato “Famiglia e Chiesa. Un legame indissolubile” – teologi, moralisti e giuristi hanno discusso le problematiche aperte dall’enciclica Humanae vitae: 57 anni fa Paolo VI ribadì la connessione inscindibile tra significato unitivo e procreativo dell’atto coniugale, dichiarando leciti solo i metodi basati sul riconoscimento della fertilità femminile, detti “naturali” e illeciti tutti gli altri, detti “intrinsecamente perversi”. Allora ci furono dissensi pubblici da parte di circa 40 conferenze episcopali, ma senza esito. Mentre oggi per questi teologi l’interpretazione restrittiva dell’enciclica può essere superata. Per loro, come ha evidenziato l’altro ieri anche Avvenire, la posizione negativa della Chiesa cattolica sul tema delle procreazione responsabile può essere rivista senza per questo andare contro il senso profondo del testo di Paolo VI. Certo, il Sinodo non è vincolato a nulla: può recepire oppure no. Eppure, che certe posizioni siano emerse all’interno della Santa Sede è notizia che non può lasciare indifferente nessuno.
La sintesi in vista del Sinodo l’ha redatta durante il seminario internazionale don Maurizio Chiodi, docente di teologia morale alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale, dove afferma che «la norma morale sulla procreazione responsabile non può coincidere con l’osservanza biologica dei metodi naturali». E ancora: «Tutte le norme morali che riguardano il “terzo” che è incluso nell’alleanza sponsale tra uomo e donna, dai metodi naturali alla contraccezione, dalla procreazione assistita all’adozione, costituiscono un buon modo di vivere l’esperienza antropologica universale della generazione». In sostanza, non è il metodo in sé a determinare la moralità, ma la coscienza dei coniugi, il loro senso di responsabilità, la loro autentica disponibilità ad aprirsi alla vita. Per questo, appunto, può essere morale la contraccezione, motivata e non egoista, e immorale l’uso dei metodi naturali se usati con scopo contraccettivo. Questa visione, spiega Chiodi, colmerebbe la drammatica differenza esistente tra la dottrina e la prassi prevalente della maggior parte dei coniugi cristiani.
Fino a oggi su questi temi Francesco è stato molto cauto. Nel marzo del 2014 disse, a proposito di Humanae vitae, che «tutto dipende da come viene interpretata». E ancora: «Lo stesso Paolo VI, alla fine, raccomandava ai confessori molta misericordia, attenzione alle situazioni concrete». Parole che manifestano un’interpretazione meno rigida dell’enciclica, seppure subito dopo il Papa disse che quella di Paolo VI fu una «genialità profetica», perché «ebbe il coraggio di schierarsi contro la maggioranza, di difendere la disciplina morale». Anche Paolo VI non ebbe una posizione di totale chiusura, al punto che, alla presentazione ufficiale dell’enciclica, volle fosse dichiarato pubblicamente da monsignor Ferdinando Lambruschini, docente di morale al Laterano, che l’Humanae vitae non era atto di magistero definitivo e infallibile.
Fino al 1951 qualsiasi metodo di regolazione delle nascite, anche quelli detti poi “naturali”, erano considerati immorali, e tra essi anche l’Ogino Knaus. A novembre 1951, su suggerimento in extremis di padre Virginio Rotondi, gesuita, si aprì così una via alla “responsabilità” della coscienza dei coniugi. Questa posizione emerse anche in Concilio, sintetizzata nella “Gaudium et Spes”, ma poi arrivò il blocco dell’Humanae vitae. Molti teologi morali illustri, allora, come Haering, Mongillo, Chiavacci, Valsecchi ed altri, furono ridotti al silenzio, e carriere ecclesiastiche furono costruite solo con la difesa della interpretazione ristretta dell’enciclica. Perché Humanae vitae è sempre stata segno di contraddizione: «E questa opposizione critica continua ancora ai nostri giorni», scrive padre Gianfranco Grieco, in “Paolo VI. Ho visto e creduto” (Lev), pubblicato alla vigilia della beatificazione dello stesso Montini.