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 2015  luglio 31 Venerdì calendario

«La mia vita è stata come un’opera lirica, attraversata da sentimenti contrastanti, piena di lutti ma anche di grandi gioie. Alla fine, comunque, mi considero una donna fortunata». Nicoletta Mantovani, la vedova di Pavarotti, parla del suo nuovo amore, Filippo Vernassa, di sua figlia Alice «tanto simile al padre», del suo assessorato a Firenze («Un lavoro difficile ma entusiasmante») e della sua malattia, la sclerosi multipla: «Non posso dire di essere guarita, ma da quando sono stata operata i sintomi della malattia sono spariti e mai più comparsi»

«Alice? Ha un orecchio musicale pazzesco. Ai concerti mia figlia è pericolosa —sorride —: si accorge subito quando una nota è stonata. Ma non so se augurarle di restare da grande nel mondo della musica». Capelli biondi alle spalle, trucco leggero, occhiali da vista spessi a nascondere gli occhi chiari e nessun gioiello indosso. L’aria è quella di una donna molto riservata e poco appariscente. In effetti, Nicoletta Mantovani, vedova Pavarotti, timida lo sembra davvero. Seduta a un tavolino del ristorante milanese dedicato al tenore appena aperto in galleria Vittorio Emanuele, parla quel tanto che basta, non una parola di più, non una di meno. Ma quello che racconta, sulla figlia oggi dodicenne, su Big Luciano e sul nuovo compagno, è limpido e diretto come una freccia al bersaglio.
In fondo Nicoletta sa il fatto suo. Lo ha dimostrato spesso, per la prima volta quando, appena ventitreenne, conobbe Big Luciano, all’epoca 58 anni e ancora sposato con la prima moglie Adua: fu subito amore e, pronta all’uragano di critiche, poco fece per nasconderlo. E pure ora, in questo anno così denso di date importanti – i quarantacinque anni appena compiuti (per la verità nel 2014, a novembre), i ventidue dal primo incontro con il marito e gli ottanta dalla nascita del tenore che saranno celebrati il 12 ottobre al teatro di Modena da un grande concerto diretto da Riccardo Muti con l’orchestra Cherubini e i giovani dell’accademia Pavarotti —, è ben decisa a fare un primo bilancio della sua vita. «È stata come un’opera lirica – dice sorseggiando un caffè —, attraversata da sentimenti contrastanti, piena di lutti ma anche di grandi gioie. Alla fine, comunque, mi considero una donna fortunata». Consapevolezza nuova, derivata dal tempo che passa e lenisce le ferite ma anche dalla presenza dell’attuale compagno, «il mio terzo amore», Filippo Vernassa, bolognese come lei e di cinque anni più giovane, e della figlia Alice, ormai grandicella, tanto simile al padre.
Alice e il pianoforte
«Quando è scomparso Luciano, Alice era piccola, aveva solo quattro anni. Ma qualcosa del padre si ricorda – racconta – per esempio dei momenti in cui ascoltavano la musica insieme, lei seduta sulle sue ginocchia». Oggi Alice gioca a pallavolo, «come il suo papà da ragazzo», e suona il pianoforte. «È brava ma le auguro davvero che da grande trovi la sua strada, che le dia soddisfazione. Altrimenti sarebbe costretta a un confronto perenne con il padre». In fondo, spiega lei, «non bisogna voler diventare famosi a tutti i costi. Oggi, invece, molti ragazzi che cantano sperano solo di avere successo. Ma è un approccio sbagliato, Luciano non faceva così. A lui interessava solo migliorarsi e onorare la sua arte, e questo è il concetto che vogliamo far passare con la Fondazione Luciano Pavarotti». Intanto Alice del padre «è molto orgogliosa. Ha visto trasformare la casa di Modena in museo e quando in primavera è venuto Renzi era lei a fargli da guida».
La ripartenza
Oggi Nicoletta, reduce dall’inaugurazione del Pavarotti Restaurant a Milano – locale temporaneo dove si serve cucina modenese, salumi e gnocco fritto, a prezzi democratici – si racconta serena. «In pochi anni ho vissuto tanto e in modo intenso. Mio marito mi ha fatto scoprire il mondo, con lui ho girato ovunque e sono stata felice. Però ho dovuto superare tanti lutti, la morte del nostro bambino Riccardo e di Luciano soprattutto». Ma anche della sorella del tenore e, nelle scorse settimane, del nipote, al cui funerale Nicoletta e Adua si sono strette per la prima volta la mano. «Non nascondo che i primi tre anni dopo la morte di Luciano sono stati molto dolorosi. Poi, però, sono ripartita». E alla fine la bilancia pende dalla parte giusta: «Ho scoperto il valore dell’amicizia e di rapporti che durano ancora oggi. I miei genitori sono stati sempre presenti. Certo, io non ho mai mollato – dice – ma in fondo bisogna essere pronti ad accettare l’aiuto degli altri quando serve e a cogliere tutte le opportunità che la vita ti offre».
Sei anni fa, per esempio, da Modena Nicoletta è tornata a vivere nella sua Bologna. E con lei da cinque c’è Filippo Vernassa, «la mia seconda occasione di vita». «Ci siamo conosciuti quando facevo l’assessore a Bologna, lui è direttore di teatri. Oggi Filippo rappresenta la possibilità che ho avuto di ricominciare un percorso, ma abbiamo cominciato a frequentarci piano piano». La paura era quella di urtare Alice. «Mia figlia è molto sensibile, ha un’anima antica, ma è riuscita a cogliere in lui il meglio. Hanno un bellissimo rapporto, sono alleati. Filippo non si vuole sostituire al padre ma è la persona con cui anche Alice sta compiendo un pezzo di strada. E oggi lei si sente così legata a lui da raccontare di avere due papà, uno in cielo e uno in terra. Questo, sono sicura, è quello che avrebbe voluto Luciano per noi».
 
La malattia
Da Modena a Bologna, passando anche per Firenze, dove Nicoletta Mantovani è dallo scorso anno assessore alla Cooperazione e alle relazioni internazionali nella giunta Nardella. «Un lavoro difficile ma entusiasmante che mi consente di girare tanto per il mondo come facevo quando Luciano era vivo». Intanto anche la sua malattia, la sclerosi multipla – su cui, per la verità, molti sono stati scettici – sembra del tutto archiviata. Complice, racconta Nicoletta, l’operazione svolta nel 2012 secondo il metodo del chirurgo ferrarese Paolo Zamboni, ancora oggi molto discusso negli ambienti scientifici: «Non posso dire di essere guarita – dice – ma da quando sono stata operata i sintomi della malattia sono spariti e mai più comparsi. La certezza che il suo metodo davvero funzioni non ce l’ho, ma su di me e molti altri pazienti è stato utile. Zamboni non è un mago, è un medico. Ora attendiamo i risultati della sua sperimentazione, ma penso che sia giusto dargli una chance. Anche lui a me ha cambiato la vita».