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 2015  luglio 31 Venerdì calendario

Quando è il poliziotto a commettere un omicidio e a inchiodarlo c’è una telecamera. Il 5 giugno l’agente David Eric Casebolt, a McKinney nel Texas, affronta e atterra una ragazzina in costume da bagno, come se dovesse neutralizzare una kamikaze. Il 12 aprile, a Baltimora, una pattuglia malmena Freddie Gray 22 anni: morirà in prigione. Vicenda simile a quella di Eric Garner, 43 anni, scagliato a terra il 17 luglio 2014 a Staten Island non riuscirà più a respirare. L’ultimo caso, due giorni fa, quando l’agente Ray Tensing, 25 anni, punta la pistola verso la testa di Samuel DuBose, afroamericano di 43 anni, dopo un controllo stradale degenerato presto in alterco. «Questa è una sparatoria senza senso, degna di un asino. Non esiste che qualcuno venga ucciso per un’infrazione stradale». E a dirlo questa volta non sono manifestanti ma Joe Deters, Procuratore della Contea di Hamilton, nell’Ohio, il responsabile delle indagini

Se si montassero uno dopo l’altro i video degli ultimi dodici mesi sulle azioni di polizia verrebbe fuori il film dell’orrore che indigna e imbarazza l’America. L’ultimo frammento, due giorni fa, mostra l’agente Ray Tensing, 25 anni, mentre punta la pistola verso la testa di Samuel DuBose, afroamericano di 43 anni, dopo un controllo stradale degenerato presto in alterco e poi in una caccia all’uomo. Non un attivista, non un avvelenato avversario delle divise, ma un uomo di Stato, Joe Deters, Procuratore della Contea di Hamilton, nell’Ohio, responsabile delle indagini, ha usato le parole più dure: «Questa è una sparatoria senza senso, degna di un asino. Abbiamo esaminato almeno altri 100 casi in cui i poliziotti hanno fatto fuoco ed è la prima volta che abbiamo subito pensato: non ci sono dubbi, è omicidio». La conclusione del Procuratore è, se possibile, ancora più amara: «cose come queste non accadono negli Stati Uniti, ok? Potrebbero accadere in Afghanistan. Ma da noi non esiste che qualcuno venga ucciso per un’infrazione stradale».
Ma questo film, se esistesse, racconterebbe un’altra storia: «cose come queste» accadono con regolarità più che allarmante negli Stati Uniti. Non siamo di fronte a una deriva recente. Ora, però, violenze e abusi sono documentate proprio grazie alle «body camera», piccole telecamere montate sulla divise oppure sulle auto di pattuglia, in seguito ai fatti di Ferguson, nel Missouri. Quel 9 agosto del 2014 il diciottenne di colore Michael Brown viene ucciso dall’agente Darren Wilson, che sostiene di aver sparato per difendersi.
È un dato di fatto che dopo l’11 settembre il corpo di polizia abbia accentuato la militarizzazione sulla base di provvedimenti come il Patriot Act. Inoltre le legislazioni praticamente di tutti gli Stati garantiscono ai poliziotti facilità di fuoco se percepiscono «un pericolo imminente» per la sicurezza propria o dei cittadini. Questo principio è sancito da una sentenza del 1985 della Corte suprema federale: «Un agente può ricorrere all’uso della forza letale se ha un fondato motivo di ritenere che una persona sospetta rappresenti una minaccia significativa di morte o di danno grave per sé o per gli altri». Questo «legal standard» si basa sulla «valutazione oggettivamente ragionevole del pericolo» condotta dallo stesso poliziotto. Nel concreto, però, non si è mai verificato che qualcuno, neanche l’Fbi, contestasse le scelte violente compiute sul campo dai tutori dell’ordine. Ora, però, ci sono le immagini e qualcosa potrebbe cambiare. Pochi giorni fa tutto il Paese ha potuto vedere che Sandra Bland, fermata per un salto di corsia in Texas, non stava mettendo affatto «in serio pericolo» l’agente Brian Encina. Eppure il poliziotto per giustificare il suo atteggiamento rabbioso comunicava via radio di aver estratto il «taser», la pistola stordente, «per garantire la sua sicurezza», la formula magica che ha assicurato l’impunità degli uomini in divisa.
I fotogrammi dell’horror sono una decina: agenti bianchi e vittime afroamericane. Il 5 giugno il poliziotto David Eric Casebolt, a McKinney nel Texas, affronta e atterra una ragazzina in costume da bagno, come se dovesse neutralizzare una kamikaze. Il 12 aprile, a Baltimora, una pattuglia, con anche poliziotti di colore, malmena Freddie Gray 22 anni: morirà in prigione. È una vicenda simile a quella di Eric Garner, 43 anni, scagliato a terra il 17 luglio 2014 a Staten Island. La sua ultima frase, prima di morire: «Non ce la faccio a respirare».
Ma il caso più vicino a quello di DuBose è accaduto il 4 aprile scorso a North Charleston, nel South Carolina. Verifica dei documenti, qualcosa non va: l’autista, Walter Scott, un nero corpulento di 50 anni, prova a fuggire, a piedi e in modo goffo. L’agente Michael Slager, più atletico, lo raggiunge. Segue un breve scontro fisico, poi Scott si gira e riprende a correre. Slager non sa che un giovane lo sta riprendendo. Si mette in posizione di tiro e spara più volte alla schiena di Scott. Poi mente alla centrale: «Aveva preso il taser, ero in pericolo». Le immagini saranno decisive nel suo e in altri processi. Intanto la smorfia di disgusto del procuratore Deters forse lascia pensare che l’agente Tensing potrebbe essere il primo poliziotto di quest’anno terribile a essere condannato. Non in quanto «asino», ma perché giudicato un assassino.