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 2015  luglio 31 Venerdì calendario

Ogni mese nove parlamentari cambiano casacca. In meno di due anni sono stati 245. Il record della senatrice Fabiola Antinori: eletta con il M5s, ha già girato tre gruppi.

Se solo gli stupidi non cambiano mai idea, la fluida senatrice Fabiola Anitori dev’essere intelligentissima. Eletta con il M5S, a giugno 2013, la signora è passata al Misto; dopodichè, a dicembre scorso, è planata in Area Popolare, la syndacation che unisce Ncd e Udc: la sua straordinaria tendenza al salto carpiato del gruppo parlamentare l’ha resa una piccola leggenda nella XVII legislatura. Certo, prima di lei brillavano i Razzi e gli Scilipoti, gli Adornato, i Mastella, i Tabacci, o i Luigi Compagna, inesausto e imbattuto transumante d’ideali e di partito, il recordman, l’uomo in grado di cambiare cinque volte gruppo in nove mesi nel 2013.
Cambiare casacca è un’arte antica. Roba che già la sinistra liberale di Depretis, nel 1882, pescando allegramente a destra, riteneva funzionale all’impedimento dell’ascesa delle ali radicali. A proposito di ali. Ora, nei claustrali cicalecci di Montecitorio, è gettonatissimo il «tradimento» di Denis Verdini, l’ex sherpa che con la sua Ala- Alleanza liberalpopolare per le autonomie, svolazza dalle parti di Renzi, contribuendo alla polverizzazione di un centrodestra già atomizzato di suo come i Comuni medievali, gli eredi di Michael Jackson o le tribù libiche. Tra Ncd, fittiani spinti, verdiniani d’assalto, rimasugli del Gal e di Scelta Civica, Fratelli d’Italia (una «delega» della defunta An) e, naturalmente, Forza Italia; be’, dell’ex Pdl rimane la balcanizzazione d’una rivoluzione liberale che non c’è mai stata. Per non dire della Lega, attraversata dalla piccola diaspora dei sei tosiani ribelli al salvinismo e poi approdati al Misto. La compattenza del centrodestra rimane, insomma, una chimera. Anzi, diciamo che lo stesso concetto di Seconda Repubblica, ispirato al bipolarismo anglosassone e alla democrazia dell’alternanza, oramai è lettera morta: soltanto un refolo, per non dire una loffia, nella mente di Adam Smith o di Giovanni Sartori.
Facciamoci due conti. Più o meno 245 cambi di casacca in meno di due anni (durante i governi a guida Enrico Letta e Matteo Renzi): un parlamentare su cinque ha disatteso il volere dell’elettorato, dato che il vincolo di mandato – ex art. 67 della Costituzione – non è contemplato nel nostro ordinamento. Secondo i dati Openpolis – ed escludendo l’Ala verdiniana che deve ancora completare la transumanza – sono stati 119 alla Camera e 116 al Senato. Numeri siderali che, se confrontati con la legislatura precedente – la sedicesima -, danno un’idea del fenomeno e del suo trend: 261 passaggi in 58 mesi, dal 2008 al 2013. Il raffronto, ulteriormente suddiviso, fotografa una cifra pari a 10,22 cambi al mese (nella diciassettesima legislatura, quella attuale) contro i 4,50 del periodo Berlusconi-Monti. Cioè più del doppio. Repubblica.it ha scorporato maggiormente i dati, e il risultato onestamente spiazza.
Negli ultimi quattro governi, le differenze sono ancora più forti: vince il governo Letta, con 15,33 cambi al mese (in virtù dell’implosione del Pdl e della nascita di Ncd), seguito dal governo Renzi (8 passaggi al mese) che si piazza davanti agli esecutivi Berlusconi e Monti, rispettivamente con 5,56 e 2,94 transizioni. Durante l’esecutivo guidato da Berlusconi (3 anni e 6 mesi) i passaggi da un ramo all’altro dell’emiciclo sono stati 217 contro i 97 dell’esecutivo Renzi, i 138 dell’esecutivo Letta e i 50 dell’esecutivo Monti. Ma, in proporzione, per ora, pare che quello attuale possa essere il record italiano di voltagabbanismo. C’è chi azzarda che, se Camera e Senato fossero un’azienda quotata in borsa, sarebbe già passato di mano il 18% delle sue azioni. Non siamo lontani dalla realtà.
Uno dice: il centrodestra si spappola, ma il centrosinistra regge. Mica vero. L’altro giorno, per dire, si è consumata, tra volti lividi, l’assemblea dei parlamentari di Sel, ex M5S ed ex Pd, più schegge di fuorusciti dal M5S. Tra i volti noti Scotto, Fassina, Cofferati, Gregori, Zaccagnini, Bocchini e Campanella: tutti determinati a costituire un nuovo gruppo parlamentare di sinistra alla Camera e al Senato. Si sentiva la mancanza di Pippo Civati, il Lutero della Brianza che non ha trovato ancora cattedrali dove appendere le sue 95 tesi eretiche. Certo, nel Pd erano già confluiti i montiani (Monti fu il primo a mollare il suo partito) col ministro dell’Istruzione Giannini che lascia alla guardia del bidone un sottosegretario Zanetti sempre più solo. E si erano pure aggiunti gli otto miglioristi – nel senso di Gennaro Migliore – emigrati da Sel. E molti altri, come non perde occasione di far notare il premier ora «sono lì che stanno in coda», solo in forza dell’italica tendenza di accorrere in aiuto del vincitore.
Però, tecnicamente, Renzi non può sentirsi tranquillo. La percentuale di voti discordanti rispetto al gruppo di elezione si gonfia, di solito, a dismisura soprattutto per i parlamentari che hanno fatto un salto di schieramento. L’esempio tipico è quello dei moltii fuoriusciti grillini: dopo l’espulsione o l’abbandono del Movimento hanno tendenzialmente iniziato a votare in modo opposto. Il problema di Renzi non sarà la forza delle idee, ma, come sempre, quella degli uomini...