la Repubblica, 31 luglio 2015
Quella “libertà di coscienza” che permette al deputato di scegliere se salvare Azzollini, al Pd di scaricare le proprie responsabilità e che consente all’elettore di sentirsi sempre meno vincolato a un partito dall’identità sempre più composita e indeterminata. E il senso di appartenenza della politica va a farsi benedire
La “libertà di coscienza” con la quale lo stato maggiore del Pd ha deciso di affrontare (meglio, di non affrontare) il voto sull’arresto del senatore Azzollini ha un vantaggio e uno svantaggio. Il vantaggio è quello di sospendere ogni rendiconto interno tra “giustizialisti” e “garantisti”, evitando spargimenti di sangue. Lo svantaggio è rendere ancora più incerta e sfilacciata – se possibile – l’immagine di un partito politico che, al di fuori della figura del suo leader, sembra non avere fisionomia percepibile: un gigantesco comitato elettorale al quale non si deve mai domandare niente di compromettente e di “ideologico”, perché la sola ideologia che tiene assieme il Pd sembra essere il supporto al suo giovane leader. Poiché la politica, per quanto mutata in senso post-ideologico, è fatta pur sempre di condivisione e, in una certa misura, di appartenenza, il voto (anzi, il non voto) su Azzollini è l’ennesimo mattone tolto all’edificio politico che ogni partito vorrebbe e dovrebbe essere. La “libertà di coscienza” rende più lasco il vincolo politico con il partito, affida al singolo deputato o senatore l’onore e l’onere della scelta, in un certo qual senso scarica il partito dalla responsabilità di una decisione. Allo stesso modo, per contagio, aumenta di giorno in giorno la “libertà di coscienza” dell’elettore, che si sente sempre meno vincolato a un partito dall’identità sempre più composita e indeterminata.