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 2015  luglio 30 Giovedì calendario

«L’editoria è un’industria. Facciamo libri, mica letteratura». Parla il vicepresidente di Mondadori Gian Arturo Ferrari: «Il nostro mestiere – da un paio di secoli, cioè da quando esiste il pubblico – è vendere. C’è un tribunale che statuisce con sentenza passata in giudicato qual è la narrativa di qualità?»

La sua frase più famosa è questa: “L’editoria è uno strano mestiere. Usa lo spirito per fare soldi, e i soldi per fare lo spirito”. Dunque Gian Arturo Ferrari, vicepresidente di Mondadori libri, è l’interlocutore perfetto per rispondere alle (numerose) accuse di Alberto Asor Rosa, nell’ultimo Scrittori e massa, uscito per Einaudi (cioè per il gruppo Mondadori).
L’editoria ha stritolato la letteratura, a forza di libri di ricette e biografie di cantanti?
Da quando l’editoria è diventata industriale – cosa che è avvenuta nei maggiori Paesi europei attorno alla metà dell’Ottocento e in Italia circa cinquant’anni dopo – è nata una figura che prima non c’era o che aveva un’importanza molto inferiore. Ovvero il pubblico. E gli editori hanno scoperto che facevano libri per venderli al pubblico. Non è una novità recente, è un fatto strutturale. Editoria e letteratura non stanno sullo stesso piano: l’editoria è un’industria che produce libri, i libri non sono la letteratura.
Ma come no?
La narrativa italiana occupa il 13 per cento del mercato. E non è affatto narrativa “letteraria”, nel senso che attribuiamo all’espressione. Se il totale è 13 per cento, la narrativa letteraria sarà meno della metà. Aggiungo: il compito dell’editoria non è fare ricerca letteraria.
Va bene: possiamo almeno dire che si è ridotto il numero di libri che gli editori fanno magari in perdita, su cui però puntano perché credono nella loro qualità?
Il problema dei titoli in perdita è un problema di tempo. Un editore non fa mai, mai, un libro pensando che ci perderà. Fa un libro pensando che magari ci perderà nel breve-medio periodo, ma ci guadagnerà nel lungo periodo.
Tutto ciò che sta attorno al libro, la società letteraria, ha perso vitalità e mordente: lei è d’accordo?
No. Le grandi società letterarie sono state, nell’Ottocento, quella francese, quella inglese e quella tedesca. L’Italia non aveva nessuna società letteraria, aveva grandi individualità come il conte Leopardi e il conte Manzoni. L’Italia, quando si è unificata, era un Paese composto da molte piccole patrie: le nostre società letterarie erano conventicole di provincia. La cultura nazionale comincia all’alba del Novecento, con il primo grande artista europeo – piaccia o no, è Gabriele D’Annunzio – e la prima importante figura d’intellettuale europeo, Benedetto Croce.
I paragoni però sono con il periodo successivo.
Il Dopoguerra è stato un lungo percorso di redenzione dal regime: i letterati italiani erano stati prevalentemente fascisti o parafascisti. Vedo che molti oggi parlano della stagione degli anni Cinquanta e Sessanta – ma sono giovani, non hanno vissuto quel periodo – e credo ci sia un grande equivoco. Uno dei dibattiti più animati dell’epoca è stato – dopo la pubblicazione del Metello di Pratolini – quale giudizio si doveva dare del protagonista, muratore di sinistra diremmo oggi, che faceva l’amore con la vicina di casa, piccolo-borghese e adultera.
E oggi?
La società letteraria non esiste più da nessuna parte: forse sopravvive un po’ a New York. Direi piuttosto che tutti quelli che si occupano di letteratura in Italia stanno molto meglio che in passato. Hanno più relazioni, sono più influenti, vendono molto di più all’estero, dove sono conosciuti e riconosciuti.
La critica è ridotta a marchettificio?
Di recensioni se ne fanno tante, vorrei sapere qual è l’autorità deputata a giudicarle.
Il senso è: non c’è più un Gianfranco Contini.
Togliamoci dalla testa che Contini, ai tempi suoi, venisse letto. Tra l’altro faceva di tutto per non esserlo, o per essere letto da quei pochi che lui riteneva potessero capire quello che scriveva.
La collana di poesia della Mondadori chiude?
Non se n’è mai parlato, ipotizzato, vagamente discusso. È un’invenzione priva di fondamento.
Allora: diciamo che si stampano, Mondadori compresa, pochi libri di poesia. Sarà una morte per consunzione.
Pochi in base al numero di titoli pubblicati? O in base al giudizio sulla “poesia di qualità”? Discussioni oziose. Quando tanti anni fa facemmo I miti poesia – un modo, pensavamo, per avvicinare i lettori – ci coprirono d’insulti. Come se avessimo portato i cavalli dei cosacchi ad abbeverarsi nelle fontane di piazza San Pietro. Ma i Meridiani che hanno maggior successo sono quelli dei poeti, perché superano l’ostacolo maggiore dei lettori. Che è l’idea di una produzione frammentata.
Vabbè, ma Asor Rosa è un vostro autore.
Noi pubblichiamo gli autori per quanto valgono e per quello che pensano, non perché condividiamo ciò che dicono. L’illusione che stiamo andando verso un’inarrestabile decadenza è vera tanto quanto il suo contrario. Se guardiamo al passato vediamo solo le cime, non vediamo le valli, le colline e le paludi. Che ci sono state, e in abbondanza.
Gli scrittori sono diventati solo storyteller?
Magari! Fossero tutti storyteller, avremmo una produzione più avvincente. Comunque non è vero in assoluto. E lo sa anche Asor, che infatti cita Gomorra, come esempio di un’opera che pur non perdendo l’aspetto di denuncia è anche qualcosa di più. Penso anche a scrittori interessanti come Emmanuel Carrère.
Appunto: più Carrère e meno Sfumature di grigio.
C’è spazio per entrambi. Mi sembrano tutte obiezioni pregiudiziali.
La trilogia delle Sfumature ha venduto cento milioni di copie in tutto il mondo.
Anche Guido da Verona vendeva più di Alberto Moravia. È sempre stato così da quando esiste il pubblico. Vorrei anche sottolineare che l’editoria industriale ha fatto leggere milioni di persone nel mondo.
Non si potrebbe stampare più narrativa di qualità?
C’è un tribunale che statuisce con sentenza passata in giudicato qual è la narrativa di qualità?
Carrère l’ha citato lei.
Certo. E allora? Non dobbiamo pubblicare le Cinquanta sfumature? Ci sono editori che pensano di avere una missione da assolvere, posizione che deriva dal primo idealismo, da Fichte, dalla missione del dotto. Cioè educare, elevare, promuovere. Ci sono editori che pensano che il loro mestiere sia una meta-arte, un’arte nell’arte. Ce ne sono altri che più umilmente pensano di fare un’attività mista, che in parte è industriale, in parte è scoperta e in parte esplorazione di ciò che bolle in quel grande pentolone che è il mondo. Diciamo che a me diverte più l’ultima, perché mi piace mettere il naso nel pentolone.