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 2015  luglio 28 Martedì calendario

L’addio a Sebastiano Vassalli, un nulla fatto di storie. Polemico, ombroso, a volte scontroso, burbero, provocatorem narratore naturale, amava raccontare, amava i suoi personaggi, a partire dal «babbo matto». Orfano di genitori vivi, bibliotecario, imbianchino, fattorino, bohemien, supplente di scuola, insegnante. Due matrimoni di cui un infelice, un figlio adottato con il quale è in perenne conflitto. E poi La chimera, Narcisso, Tempo di màssacro e L’arrivo della lozione, L’oro del mondo, Arkadia, Marco e Mattio e Terre Selvagge. E ora l’Internazionale suonerà per lui

Non è un gioco di parole se si dice che Sebastiano Vassalli è stato un bastian contrario. Non amato dal mondo letterario ma adorato da tanti lettori e lettrici. Polemico, ombroso, a volte scontroso, narratore naturale, amava le storie, amava i suoi personaggi, a partire dal «babbo matto» Dino Campana, a cui dedicò un romanzo-verità, forse il suo più bello, La notte della cometa, del 1984, con il quale usciva dall’esperienza neoavanguardista in cui era cresciuto, attratto quasi in fasce dal Gruppo 63 e dalle sue utopie stilistiche e ideologiche.
Nato a Genova nel 1941 da un padre che ha visto raramente, «nullafacente, dedito alla borsa nera, fascista, sempre dalla parte sbagliata», e da una madre tuttofare che definiva ironicamente «un altro campione di umanità». Cresce solitario come un fungo («padre e madre di me stesso», «orfano di genitori vivi») in collegio, poi con due zie zitelle a Novara, e nel Novarese rimane per tutta la vita, sedentario, appartato, a disagio nella modernità e si direbbe nel mondo. Studente di Lettere alla Statale nella Milano effervescente degli anni Sessanta, dove da pittore in erba un po’ bohemien frequenta non i corsi universitari ma le gallerie d’arte e la zona di Brera, facendo lavori qua e là, quel che capita, bibliotecario, imbianchino, fattorino, supplente di scuola… Matura l’idea di darsi alla scrittura dopo un esame quasi impossibile con Mario Fubini, l’incontro a Torino con Edoardo Sanguineti farà il resto. Ottiene la laurea con Musatti, presentando una tesi su arte e psicoanalisi che fa inorridire la commissione (tra cui Gillo Dorfles). Si sposa giovane, nel 1968: un matrimonio non felice, con l’adozione di un figlio con il quale è in perenne conflitto.
Insegnante di scuola media e poi nelle superiori per molti anni, non si allontana mai da Novara, ma il suo mondo diventa sempre più la campagna di Biandrate e la nebbia che copre il Monte Rosa, vero luogo poetico che ispira le prime pagine del suo romanzo più fortunato, La chimera, del 1991, arrivato a oltre un milione di copie tra edizioni tascabili e scolastiche. Dopo gli esordi poetici e il debito pagato alla neoavanguardia, con la «bisboccia verbale» di libri ostici come Narcisso, Tempo di màssacro e L’arrivo della lozione, che escono nella collana einaudiana della Ricerca letteraria sotto l’egida di Sanguineti, Davico Bonino e Manganelli, Vassalli trova la sua strada nel romanzo storico. Ma è un romanzo storico sempre sui generis, al punto che si può tranquillamente dire che, pur dentro un genere tradizionale, Vassalli rimane uno scrittore sperimentale, che attraversa, negli anni Ottanta mescolando invenzione e ricerca documentaria.
L’oro del mondo (1987) è un libro amaro, che rasenta il sarcasmo, sul carattere degli italiani, è uno dei libri-chiave per capire, dall’interno, le ambiguità del dopoguerra italiano. Una narrazione a più livelli che intreccia l’autobiografia, incentrata sulla grottesca figura paterna, l’indagine sui cercatori d’oro della valle del Ticino (approdo fantastico del giovanissimo Sebastiano) e il resoconto della vicenda editoriale relativa al libro stesso, anch’essa giocata su un tono ironico-derisorio: il tema delle ipocrisie della società letteraria italiana, con le sue ritualità e il suo falso perbenismo, è un leitmotiv che Vassalli declina in vari modi (Arkadia, del 1983, è un pamphlet al vetriolo sulle consorterie poetiche).
Con La chimera arriva il successo, favorito dal premio Strega. È vero che alla figura di Antonia, giovane strega di Zardino nata nel 1590 e destinata al rogo, tutto viene ricondotto, ma si tratta di un romanzo corale e digressivo, più che di un romanzo storico, un romanzo di storie grandi e minime: quelle del vescovo in disarmo Bascapè, di don Michele, di don Teresio, del bandito Caccetta, del grande inquisitore Manini, degli orribili carcerieri Taddeo e Bernardo, dei risaroli della Pianura, dei camminanti, dei lanzi e del gigante Attila, dell’«esposta» adulta Rosalina che compare all’inizio del libro, eccetera. Esplode con questo romanzo il Vassalli narratore capace di dominare come pochi la sua materia, rivolgendosi al lettore, commentando da voce esterna e interna, intessendo fili che arrivano al presente, senza preoccuparsi di apparire didascalico. Un «nulla fatto di storie» è il panorama che vede davanti a sé al mattino affacciandosi alla finestra di casa: «Io sono un nulla che ha sognato molto – ha detto in una bella intervista a Giovanni Tesio —, un nulla pieno di storie…».
Grazie alla Chimera, all’inizio degli anni Novanta Sebastiano ha potuto comperare il rudere di una parrocchia nelle risaie attorno a Biandrate, di fianco alla chiesetta di san Bartolomeo; ne ha ricavato una grande casa su due piani, del piccolo campo di grano turco antistante ha fatto un giardino ben curato e ricco di noci, ciliegi selvatici, querce varie, betulle, aceri, noccioli, noci, frassini, gelsi, castagni, biancospini, aceri, giuggiole, carpini, roveri, un pioppo, un platano... Lì, nella sua casa-museo piena di ricordi, di quadri e sculture, di carte e fotografie, di oggetti amati, le copertine dei libri Einaudi appese alle pareti, lavorava. Non smetteva mai una storia senza averne un’altra in pancia. Il mondo per lui era un immenso calderone di vite, vicine e remote, a cui lo scrittore doveva attingere senza stancarsi mai: l’unico suo impegno civile era disseppellire storie per andare alla ricerca della «malapianta» italiana, dei miti sbagliati. Nel ’92 il Pci di Novara, ridotto a poca cosa, quando decise di allearsi con repubblicani e Rete, gli chiese di candidarsi: «Ci pensai e risposi no grazie. Un mestiere ce l’avevo già e ce l’ho ancora adesso: raccontare storie. Sono più attratto dal raccontarle che dal viverle».
La scrittura di storie gli teneva occupate la testa e la scrivania. Aveva più tavoli da lavoro e qualche vecchia macchina per scrivere, perché da artigiano della scrittura rifiutava il computer. Non per snobismo. Batteva a macchina, correggeva a mano, poi riscriveva, sentiva la fatica fisica come parte del lavoro di scrittura. Non ho conosciuto nessuno scrittore che abbia lavorato con tanta forza, senza respiro. Non smetteva mai. I titoli sono tantissimi, così come i periodi da cui via via ha tratto le sue narrazioni e i suoi personaggi, come fossero sintomi su cui il suo sismografo narrativo andava a posarsi: il Settecento di un ciabattino veneto, aspirante salvatore dell’umanità, in Marco e Mattio; l’Ottocento siciliano di mafiosi e trafficanti ne Il Cigno; il lungo Novecento di provincia in Cuore di pietra (protagonista una casa ma anche gli «scienziati della rivoluzione»); la Grande Guerra de Le due Chiese rivissuta a Rocca di Sasso, un paesino di fantasia sotto il Monte Rosa; e così via, in avanti verso la fantascienza e indietro affondando nel tempo del grande progetto imperial-letterario di Augusto e Virgilio (Un infinito numero). Fino alla nuova sfida di Terre selvagge (uscito con Rizzoli nel 2014 dopo il doloroso divorzio da Einaudi) che ripercorre la resistibile discesa dei Cimbri in Italia.
Ha avuto appena il tempo di concludere un nuovo romanzo con cui è tornato all’amato, manzoniano Seicento. Lo leggeremo in autunno. Vassalli avverte le crepe della storia, si innamora delle piccole vicende che incrociano la Grande Storia, è un pessimista che ha una passione per il fallimento dei progetti ideali, per le utopie che sfiorano la follia o la megalomania. Quasi volesse correggere un peccato originario proprio della sua generazione. Che non sopportava.
Aveva poche relazioni con il mondo. E un debito, che non nascose mai, con il suo editore, Giulio Einaudi, con il quale aveva rotto i rapporti riallacciandoli in extremis, con molta gratitudine. Anche la resistenza dell’editoria di cultura gli è sembrata un’illusione al tempo del mercato e del valore assoluto delle classifiche: era un’ossessione degli ultimi tempi (basta leggere i suoi «Improvvisi», la rubrica che teneva da anni sul «Corriere della Sera»).
Uno dei suoi più cari amici era Roberto Cerati, figura storica della grande Einaudi, che andava a trovarlo ogni tanto, nelle trattorie vicino a Biandrate, per mangiare insieme la «paniscia» e bere Ruché. Sebastiano è stato un burbero, ombroso, fedele ai suoi pochissimi amici. Provocatore, che a volte non evita le posizioni scomode e non conformiste: nel 1993 provocò un polverone parlando della «compromissione letteraria» di Sciascia con i suoi protagonisti mafiosi, figure dalla «oscura e contraddittoria grandezza».
Si sentiva estraneo, ormai, al mondo dei libri, vivendo con amarezza il paradosso di non riuscire ad abbandonare la macchina per scrivere per costruire grandi narrazioni. Parlava mal volentieri della vecchiaia, delle malattie e della morte, e se lo faceva si preoccupava subito di toccar ferro. Negli ultimi tempi, però, infranse la sua riservatezza che poteva apparire cupa chiedendo che le sue ceneri venissero sparse nel boschetto davanti alla sua casa e che per il suo funerale (laico e civile) si suonasse l’Internazionale (sogno di giustizia) e si recitasse il Padre nostro: «il sogno d’amore rappresentato dal dialogo con il padre». La seconda moglie, Paola, gli è rimasta vicina fino all’ultimo, assistendolo con cura e dedizione in un hospice di Casale Monferrato nei mesi della malattia. Sebastiano ha lottato contro il presentimento di morire parlando di letteratura e di nuovi progetti.