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 2015  luglio 25 Sabato calendario

Biografia di Achille Ratti (Papa Pio XI) secondo la Treccani

Achille Ratti nacque a Desio, borgo non piccolo dell’Alta Brianza tra Monza e Como, il 31 maggio 1857, quarto figlio di Francesco (nato a Rogeno nel 1823) e di Teresa Galli di Saronno che si erano sposati nel 1851. Venne battezzato il 1° giugno con i nomi di Ambrogio, Damiano, Achille. Il padre, direttore di filande (Conti a Pusiano, poi Riva a Carugate), quando morì, il 4 luglio del 1881, era responsabile e comproprietario delle filande Gadda in Pertusella. Proveniva da una famiglia di Rogeno, sempre nell’Alta Brianza, le cui origini vengono fatte risalire al sec. XVII (Gerolamo Ratti), ma da alcuni riportate ad un Giacomo Antonio (1389-1414), podestà di Cherasco, e ad un Carlo Antonio Luigi (1572-1631), paggio di Amedeo di Savoia e comandante militare. Da molte generazioni i Ratti esercitavano, comunque, l’arte della seta (filatura e tessitura). Dei fratelli del futuro pontefice Carlo sarà capostazione delle Ferrovie Nord a Milano, Edoardo setaiolo, Fermo negoziante di sete; la sorella Camilla vivrà con la madre. Molto si è scritto sulle radici brianzole del futuro pontefice: il cardinale C. Confalonieri, a lungo suo segretario particolare, ha scritto: “Il papa amava tanto la Brianza non solo perché era brianzolo, ma per la grande vitalità della gente, per la capacità di godere del lavoro e di mettercela sempre tutta in ogni circostanza; (…) conservò sempre il gusto del brianzolo” (Pio XI: un papa riflessivo, pp. 43-6). Primo maestro elementare del piccolo Achille fu il milanese don Giuseppe Volontieri: sulla sua formazione spirituale ebbe però un peso particolare lo zio Damiano Ratti, prevosto di Asso – dove Achille continuò gli studi elementari nella scuola privata diretta da E. Prina -, in rapporti di devota amicizia con l’arcivescovo di Milano, L. Nazari di Calabiana, senatore del Regno e Collare dell’Annunziata, fra i pochi oppositori italiani dell’infallibilità pontificia al Vaticano I. Presso di lui il Calabiana incontrò il giovane Achille entrato a dieci anni nel Seminario arcivescovile di S. Pietro Martire a Milano e passato poi, per due anni, in quello di Monza (vi ebbe insegnanti Sala, Riboldi, Mercalli), per approdare al Collegio arcivescovile S. Carlo di Milano dove preparò la licenza liceale che ottenne al liceo Parini. Primeggiò in greco e nell’ebraico che apprese da monsignor A. Ceriani. Continuò gli studi nel Seminario teologico da dove, dopo il terzo corso e con il diaconato, passò al Collegio Lombardo di Roma allora retto dal futuro vescovo di Crema, monsignor E. Fontana, e appena riaperto nei pressi della chiesa di S. Carlo al Corso. Al Lombardo, dove arrivò nell’ottobre 1879, ebbe tra i compagni il futuro arcivescovo di Palermo, A. Lualdi e quel G. Radini Tedeschi che, nominato vescovo a Bergamo nel 1905, avrà come segretario il futuro papa Roncalli. Ordinato sacerdote il 20 dicembre 1879, celebrò la sua prima messa in S. Carlo al Corso e, nel 1882, si laureò in teologia alla Sapienza, in diritto canonico all’Università Gregoriana (dove ebbe tra i docenti i gesuiti Sanguinetti, Querini, Baldi e Wernz) e in filosofia presso l’Accademia S. Tommaso (i suoi esaminatori furono padre Liberatore e i professori Talamo, Satolli, Lorenzelli e Fabbri). Insieme al condiocesano Lualdi – cardinale nel 1908, decisivo nel conclave che lo eleverà al pontificato – Achille Ratti fu ricevuto in udienza privata, prima di lasciare Roma, da Leone XIII, il quale li avrebbe esortati ad “essere i propugnatori del ritorno della filosofia scolastica tomistica” e a “dire a tutti che questa è la volontà del papa”, onde salvare la diocesi di s. Ambrogio e s. Carlo “dall’inquinamento filosofico di una scuola che fa proprio l’antesignano abate Rosmini (…)” (G. Guida, pp. 42-3). All’inizio dell’anno accademico 1882-1883 gli furono affidati i corsi di sacra eloquenza e di teologia dogmatica al Seminario teologico di Milano, insieme all’incarico di delegato arcivescovile per la piccola parrocchia dei SS. Pietro e Paolo in Barni e di cappellano delle Suore di N.S. del Cenacolo. In quello stesso anno ebbe occasione di incontrare, nell’oratorio di Valdocco, don Giovanni Bosco. Dopo cinque anni di insegnamento seminaristico fu accolto, a seguito della morte di F. Villa, tra i “dottori” della Biblioteca Ambrosiana, su proposta del prefetto di allora, quel monsignor Ceriani che era stato suo esaminatore di ebraico. Intensa (oltre settanta scritti) e propriamente scientifica la sua produzione che venne pubblicata da alcune delle più significative riviste dell’epoca, dall’"Archivio Storico Lombardo” ai “Rendiconti dell’Istituto Lombardo di Scienze e Lettere”, al “Giornale Storico della Letteratura Italiana”, ecc. (v. N. Malvezzi, Pio XI nei suoi scritti, Milano 1923) e che varia dalla storia di Milano e della sua Chiesa all’erudizione bibliografica, dallo studio del Liber Diurnus Romanorum Pontificum ai lavori occasionati dalle celebrazioni del terzo centenario della canonizzazione di s. Carlo Borromeo – di cui Ratti fu sapiente regista -, dalle ricerche di storia dell’arte e della letteratura alla Guida della Biblioteca Ambrosiana, alle comunicazioni al Club Alpino sulle sue escursioni (v. Salite ed escursioni di A. Ratti, in G. Guida, pp. 311-13: l’ultima sarà nell’ottobre del 1913 con una permanenza di quattro notti nella capanna della vetta della Grigna settentrionale). Da tutti i lavori emerge la sua conoscenza delle lingue e della paleografia e la sua vastissima cultura storica e filosofica, la sua notevole erudizione sempre valorizzata in ampia prospettiva storiografica e utilizzata per sintesi essenziali e puntuali. Numerosi i riconoscimenti di paleografi e bibliotecari non ecclesiastici che mettono in luce l’esemplarità della sua attività di bibliotecario (E. Rostagno, G. Barini, ecc.), attività che lo portò a visitare le più importanti raccolte europee. La sua corrispondenza con il prefetto dell’Ambrosiana, Ceriani, è una testimonianza di notevole interesse per la storia della cultura erudita (A. Novelli, C. Marcora). La sua visione della storia resta, comunque, quella di “una entità complessa, difficilmente riconducibile a giudizi emotivi o apocalittici”, una concezione realistica “piuttosto inconsueta nel panorama del cattolicesimo italiano di fine secolo, ancora dominato da una mentalità apocalittica e volta al passato” (G. Vecchio, pp. 77-8). Nelle Parole lette al Sacro Monte di Varese in occasione dei venticinque anni di sacerdozio (1904) non esiterà “ad esaltare i treni di lusso [che] traversano regioni fino a ieri riservate alle foreste vergini e ai deserti di neve e d’arena (…); Edison, il signore dell’elettricità (…); Marconi, gloria nostra (…); Röntgen [che] rischiarava e rendeva praticabili (…) le vie delle tenebre”, e a ringraziare la Provvidenza “d’averci serbati a tanta grandezza d’ogni umano progresso” (ibid.). All’Ambrosiana stringerà amicizie importanti (G. Mercati, che ritroverà alla Biblioteca Vaticana, F. van Ortroy, bollandista, A. Roncalli, editore della visita di s. Carlo a Bergamo, e C. Ferrini, grande studioso di diritto romano) e svolgerà varie attività parallele (riordinamento dell’archivio storico diocesano, esame di vari resti e reliquie di santi e di martiri, riordinamento della pinacoteca e del museo, predicazione alla comunità tedesca di Milano, ecc.). Quella relativa alla identificazione delle reliquie di s. Satiro, riconosciute autentiche in quelle milanesi, gli procurò addirittura minacce di morte da parte dei cattolici di Volterra che si videro privati dei “veri” resti del santo (G. Galbiati, Papa Pio XI, p. 280). Diverse le interpretazioni circa i suoi atteggiamenti “politici” in questi anni: le molte amicizie con l’aristocrazia cattolica (Gallarati Scotti, Cornaggia Medici, Castelbarco, Caccia Dominioni, Trivulzio, Greppi, Jacini, Borromeo, Osio, ecc.), l’opera di mediazione tra il cardinale A.C. Ferrari e F. Bava Beccaris svolta nel 1898, e alcune testimonianze hanno fatto pensare ad orientamenti liberali e nazionali (G. Vecchio, p. 69); altri propendono per preferenze più nette verso il “conservatorismo liberale della Lega Lombarda” e il conciliatorismo (F. Fonzi, Il colloquio, p. 655); il limitato accesso alle sue corrispondenze e la sua abitudine di parlare “a braccio” (la maggior parte dei suoi discorsi “sono riferiti in forma indiretta”, scrive il curatore dei tre volumi de I discorsi di Pio XI, D. Bertetto [p. IX]) non consentono comunque di definire concretamente le sue posizioni.
Anche il ruolo da lui svolto nei momenti difficili delle polemiche antimoderniste che coinvolsero il cardinale Ferrari non è ancora chiaro: è certo che Ratti ammise che il cardinale arcivescovo era “sembrato difendere in modo troppo vivace e assoluto il proprio onore pastorale con quello del Seminario e della sua Diocesi” e che giudicò “una grave imprudenza” l’autodifesa pronunciata dal Ferrari, “limitandosi prudentemente ad intercedere per il suo cuore di vescovo e di padre [che] ha diritto di essere scusato e benevolmente interpretato” (E. Cattaneo, Il card. Ferrari, p. 126; G. Zizola, p. 54; C. Snider, II, p. 295). Eppure, in una lettera del 9 marzo 1900 G. Gallavresi aveva scritto a Sabatier: “avec don Achille Ratti et Tommasino Scotti nous louâmes Dieu pour les grâces surnaturelles qu’il répandait sur les protestants, sur vous, illustre Monsieur, tout spécialement (…)”, aggiungendo “Nous vous croyons parfois un des nôtres, douce erreur dans un certain sens (…), douce vérité dans un autre sens” (C. Matassini, p. 1061). E in una lettera da Roma a Gallarati Scotti del 19 dicembre dell’anno precedente Ratti riferiva: “Ai miei auguri sono lieto di poter unire (…) quelli del dr. Mercati, del buon barone von Hügel, di mons. O’Connel. Col primo divido la vita di ogni giorno da quasi tre mesi; con gli altri due ho pranzato presso un altro degno e dotto sacerdote il P. Genocchi (…). Al principio del mio soggiorno romano lì stesso pranzai pure col P. Semeria” (C. Marcora, p. 184). Nella notte di Natale del 1907, però, “nella cappella della villa di Oreno (…) Tom [Gallarati Scotti] rimane senza comunione, è tra gli scomunicati” (ibid., p. 191). Durante gli anni trascorsi all’Ambrosiana – di cui diventerà prefetto nel 1907 alla morte del Ceriani – Ratti compirà vari viaggi e soggiorni all’estero per studi, ma anche per due missioni “ufficiali": nel 1891 accompagnò l’amico Radini Tedeschi che portava la berretta cardinalizia all’arcivescovo A.G. Gruscha e nel 1893 venne incluso come segretario dello stesso Radini Tedeschi nella missione, da questi guidata con monsignor G. Granito Pignatelli di Belmonte, inviata da Leone XIII a Parigi per rimettere la berretta rossa al nuovo arcivescovo di Bordeaux, V.L.S. Lécot, e a quello di Rodez e Vabres, G.C. Bourret. Da Parigi volle recarsi in visita al santuario di Lourdes: vi tornerà nell’agosto del 1921 alla vigilia dell’ingresso nell’arcidiocesi di Milano e a meno di un anno dall’elevazione al pontificato. Il vescovo di Lourdes, F.S. Schoepfer, gli avrebbe detto “si passa da qui per andare a Roma” (C. Confalonieri, Pio XI visto da vicino, p. 24). E a Roma, infatti, arrivò, per decisione papale, nel novembre 1911, come viceprefetto della Biblioteca Apostolica Vaticana, con diritto di succedere al bavarese padre F. Ehrle che si ritirerà il 1° settembre del 1914. Da quella data monsignor Ratti, diventato anche socio ordinario dell’Accademia Romana di Archeologia e aggregato al Capitolo canonicale di S. Pietro, si impegnò a sviluppare la Biblioteca e le annesse raccolte sulle linee tracciate dal predecessore, cercando, invano, di ottenere l’antica Biblioteca Chigiana: Mussolini, a due mesi dalla presa del potere, ne farà dono all’antico prefetto diventato papa Pio XI. Nell’aprile del 1918 Benedetto XV decide di inviare il sessantunenne bibliotecario a Varsavia come visitatore apostolico per la Polonia e la Lituania, sembra su indicazione di monsignor B. Cerretti, nonostante mancasse di esperienze internazionali. In realtà, in un primo momento, si pensava che Ratti dovesse soltanto aiutare la Chiesa polacca a riorganizzarsi e a definire i propri rapporti con il nuovo Stato (le istruzioni che gli vennero consegnate, e che si riferivano anche alla posizione della Chiesa cattolica in Russia, sono pubblicate da O. Cavalleri, in L’archivio di mons. Achille Ratti, p. 90). Dopo inizi “quasi trionfali” che impressionano il visitatore accolto nelle campagne da polacchi che, al suo arrivo, cadono “tutti insieme (…) in ginocchio” e “gli innalzano archi di trionfo con i colori vaticani” (R. Morozzo della Rocca, p. 97), e dopo un’estensione del suo mandato a “tutti i territori già soggetti ai Romanov”, Ratti viene nominato nel giugno 1919 nunzio apostolico a Varsavia, rimanendo visitatore per la Lituania. Ai primi entusiasmi subentrano nel nunzio varie e costanti preoccupazioni per “l’accentuato nazionalismo dei polacchi” e per le divergenze con il cardinale A. Bertram di Breslavia, fautore del mantenimento della sovranità germanica sull’Alta Slesia: il panorama che si presenta al nunzio è “quello di una Polonia in guerra (…), per quasi tutta l’estensione dei suoi confini”, che esaspera il nazionalismo ed esige dalla “Santa Sede in primo luogo un appoggio incondizionato” e poi anche un appoggio contro i cattolici di rito orientale. Non del tutto apprezzabili, in questo contesto, le considerazioni del nunzio sulla presenza ebraica: “fattore di divisione e confusione per il popolo polacco”, i numerosissimi ebrei sono “il più malfido elemento della vita polacca, un pericoloso fattore antinazionale, una massa che infesta la vita pubblica”, l’elemento “più nefasto e più demoralizzante che si possa immaginare: provocatore e sfruttatore immanchevole di disordini” (ibid., p. 99). Non pochi, anche, i dissapori con parte dell’episcopato polacco “principalmente col Sapieha di Cracovia” (che dovrà attendere “l’aureola del martirio polacco nella seconda guerra mondiale” e Pio XII per avere il cardinalato), il quale sarebbe stato fautore di una Chiesa “più polacca e meno romana”. Al momento dell’invasione bolscevica di Varsavia, nell’estate del 1920, Ratti non lascia la città con il governo che si trasferisce a Posen: si disse, ma non è confermato dalla documentazione disponibile, che fosse stato incaricato dal Vaticano di stabilire contatti con i bolscevichi; è certo, invece, che il segretario di Stato P. Gasparri raccomandò “moderazione e prudenza” di fronte alle “esorbitanti condizioni di pace” poste dal governo polacco dopo la vittoria sulla Vistola e caldeggiò una “riconciliazione con lituani ed ucraini”. Negli ultimi mesi del 1920 sarà la questione dell’Alta Slesia a compromettere la missione di Ratti in Polonia (ibid., pp. 97-119). Nominato alto commissario per garantire l’imparzialità della Chiesa nel plebiscito che doveva attribuire tale regione alla Germania o alla Polonia, Ratti si trovò immediatamente di fronte Bertram, che aveva già sensibilizzato Roma anche sui riflessi che la posizione della Santa Sede avrebbe potuto avere sui negoziati concordatari che il nunzio Pacelli stava impostando. Considerato filopolacco dai Tedeschi (ma anche Benedetto XV dirà a padre Genocchi “il est devenu un peu trop polonais”, “La Croix”, 10 febbraio 1922), Ratti – che pure aveva segnalato la parzialità e inattendibilità di Bertram – con il suo atteggiamento di riserbo finì per scontentare gli stessi Polacchi che, di fronte ad un provvedimento del cardinale di Breslavia nel quale si vietava al clero non diocesano qualsiasi attività politica in Slesia, minacciarono la rottura delle relazioni diplomatiche con il Vaticano. L’ambasciatore tedesco presso la Santa Sede, D. von Bergen, non esitò a mettere in evidenza l’inesperienza del nunzio a Varsavia che finì per trovarsi in rotta di collisione con il suo futuro segretario di Stato, il nunzio in Germania E. Pacelli – molto impressionato dall’oltranzismo polacco e preoccupato, come Gasparri, di “conservare l’unità e la ritrovata compattezza della Germania” – al quale si dovette, probabilmente, la sostituzione di Ratti in Alta Slesia con monsignor G.B. Ogno, diplomatico vaticano in servizio alla Nunziatura di Vienna. Ma anche “l’iniziale simpatia degli ambienti polacchi per il Nunzio” veniva ormai a cadere e “iniziava l’aperta contestazione del rappresentante pontificio” che, “nel migliore dei casi (…), si appuntava contro l’invadenza consentita al Bertram (…) e risultava pertanto indirettamente rivolta contro il Nunzio Ratti”. Alla Santa Sede, impressionata anche dalla campagna ostile di stampa, non rimaneva che richiamarlo anche perché “considerato (…) responsabile, da parte della chiesa e del governo tedeschi, della mancata tutela dei beni ecclesiastici della Slesia” (S. Trinchese, pp. 283-89). Ratti, che il 28 ottobre 1919 era stato consacrato arcivescovo titolare di Lepanto, rientrò a Roma l’8 giugno del 1921, venne trasferito alla sede arcivescovile di Milano, dove era da poco morto il Ferrari, e fatto cardinale nel Concistoro pubblico del 15 giugno. Dopo un passaggio a Montecassino e a Lourdes fece l’ingresso nella diocesi lombarda l’8 settembre del 1921, ma vi restò solo fino al conclave del 2 febbraio 1922. Fece in tempo a partecipare alla solenne inaugurazione dell’Università Cattolica del Sacro Cuore che, ad avviso di monsignor F. Olgiati, segnava “l’inizio di una nuova epoca” e la resurrezione di Cristo anche nel campo del sapere: “Ardigò si è tagliata la gola. Papini scrive la storia di Cristo; più presto che non si creda declinerà anche l’idealismo” ("Rivista del Clero Italiano”, 5, 1921, p. 531). Per la rivista dell’Ateneo di padre A. Gemelli con l’elezione di P. “è la cultura che sale al soglio di Pietro. È la scienza che ci appare rivestita dalle vesti pontificali. È il sapere che celebra il suo connubio con la fede” ("Vita e Pensiero”, 6, 1922, p. 66). Nel conclave seguito alla morte di Benedetto XV, iniziato il 2 febbraio 1922 e conclusosi il 6, Achille Ratti veniva eletto papa al quattordicesimo scrutinio. Dopo le prime candidature di R. Merry del Val, già segretario di Stato di Pio X, e del cardinale di Pisa, P. Maffi, emersero P. La Fontaine, patriarca di Venezia, integrista più moderato, e Gasparri, espressione dei cardinali “liberali”. Il primo avrebbe raggiunto una sola volta i ventitré voti, il secondo non sarebbe riuscito a superare i ventiquattro. Ratti partito con quattro voti raggiungerà i quarantadue (su cinquantatré) grazie, soprattutto, alla convergenza su di lui del gruppo Gasparri. Il cardinale G. De Lai, che capeggiava i nostalgici di papa Sarto, avrebbe condizionato i voti del proprio gruppo all’impegno (se vero, non mantenuto) dell’eletto a non confermare Gasparri alla Segreteria di Stato (R. Aubert, C. Falconi, M. Agostino). Il nuovo pontefice scelse il nome di Pio XI probabilmente per segnalare una non discontinuità con Pio X; adottò come motto “Pax Christi in Regno Christi” per sintetizzare il suo programma; confermò Gasparri come segretario di Stato sia per l’appoggio ricevuto in conclave, sia perché, date le sue non brillanti prove in Polonia, aveva bisogno di un grande diplomatico e giurista che guidasse la sua “cancelleria”. Con la benedizione impartita dalla loggia esterna di S. Pietro, la prima di un papa dopo l’autoreclusione in Vaticano di Pio IX e dei suoi successori, si apre un pontificato che, nei suoi diciassette anni, sarà decisivo nella storia del papato e del Novecento. Un difficile dopoguerra, quattro dittatori (Mussolini, Hitler, Stalin e Franco), la grande crisi finanziaria del 1929, le guerre coloniali, la situazione del Messico, la guerra di Spagna, le leggi razziali tedesche e italiane, la preparazione del secondo conflitto mondiale saranno gli ingredienti politici e ideologici del mondo che l’antico bibliotecario dell’Ambrosiana e della Vaticana si sarebbe trovato ad affrontare. Un grande successo segnò presto il pontificato di P.: la soluzione della “questione romana”, il recupero di una pur minuscola sovranità territoriale, la creazione dello Stato Vaticano con le sue leggi, il concordato con l’Italia fascista che servirà da modello per tutti i successivi accordi con gli Stati totalitari. Un attento e consapevole osservatore, A.C. Jemolo, commentando l’elezione sulla “Nuova Antologia” replicherà a coloro che avevano esultato per il papa “italianissimo” che Ratti sarebbe stato “papa romano, pastore della Chiesa universale, anzitutto”, ma che non era da escludere che “al cuore italiano che batte sotto il bianco ammanto papale sia data l’ora di gioia della riconciliazione aperta e piena tra S. Sede e Stato italiano” (16 febbraio 1922, p. 379). Venticinque anni dopo scriverà che le origini conservatrici di P. “avevano pesato sulla sua politica” e si augurerà che nel non pronunciato discorso per il decennale dei Patti del Laterano il pontefice avesse dato il “grande edificante spettacolo di un Papa che avrebbe confessato di avere errato, in una materia tutta politica ed umana, in un giudizio di fatto sugli uomini e su un partito”, sfidando “le potenze terrene in nome della legge cristiana” (Chiesa e Stato, p. 670). Il discorso, rimasto manoscritto e svelato da Giovanni XXIII nel 1959, non andava certo in quella direzione, anzi ribadiva che con i Patti del 1929 si era “ridato Dio all’Italia e l’Italia a Dio” e che la ricorrenza era “ottimo auspicio di più luminoso avvenire” ("L’Osservatore Romano”, 9 febbraio 1959). Con le due prime encicliche (Ubi arcano Dei, 23 dicembre 1922; Quas Primas, 11 dicembre 1925) P. affrontò i problemi di politica internazionale (deprecando il nazionalismo, ma modificando l’atteggiamento del predecessore verso la Società delle Nazioni cui contrapponeva la cristianità medievale) nella prospettiva di una restaurazione del Regno di Cristo, la cui “regalità” veniva esaltata con l’istituzione della relativa festività e con la rivendicazione di una “dignità” che imponeva agli Stati di regolarsi “secondo gli ordini di Dio e i principi cristiani nello stabilimento delle leggi, nell’amministrazione della giustizia, nella formazione intellettuale e morale della gioventù”. Salvatorelli parlò di una sorta di nuova Unam Sanctam di Bonifacio VIII nel Novecento; la storiografia più recente ha notato che con le sue dottrine P. arroccava la Chiesa – società perfetta – “su posizioni di assoluta intransigenza religiosa, la presentava come una realtà in contrasto, in alternativa globale alla civiltà moderna, ma anche omologa con l’ondata conservatrice” (G. Verucci, p. 37), rilanciando le tesi ierocratiche di una nuova cristianità e le teorie del potere indiretto della Chiesa negli affari temporali (R. Aubert, pp. 209-59). L’Azione Cattolica sarebbe stata lo strumento principe per restaurare il potere della Chiesa nella vita pubblica, nella stretta obbedienza alle direttive e alle gerarchie ecclesiastiche: “un esercito assolutamente disciplinato e obbediente alle disposizioni del papa, lanciato alla riconquista e alla ricristianizzazione della società” (G. Verucci, p. 39). A questo disegno si collegheranno le encicliche sociali degli anni 1929-1931 (Divini illius Magistri, 31 dicembre 1929; Casti connubii, 31 dicembre 1930; Quadragesimo anno, 15 maggio 1931) che esprimono “lo spostamento dell’interesse dal rapporto con lo Stato al rapporto con la società, in seno alla quale i laici devono impegnarsi a risolvere cristianamente i vari problemi (quello educativo, quello familiare, quello sociale) posti alla vita collettiva. L’attenzione alla società (…) si accompagnava all’attenzione alla persona e alla sua responsabilità come al primo e principale fattore nel gioco dei rapporti sociali”. In ultima analisi pur rimanendo in un quadro di cristianità e mantenendo una “visione fortemente gerarchicizzata dell’azione della Chiesa attraverso i laici”, il pensiero di P. “conteneva alcune virtualità innovative che saranno sviluppate da Pio XII” (A. Acerbi, pp. 132-33).
Dal punto di vista più propriamente religioso il pontificato di P., oltre che per il giubileo ordinario del 1925 e quello straordinario nel diciannovesimo centenario della Redenzione (2 aprile 1933-2 aprile 1934), si caratterizzò per una successione senza precedenti di beatificazioni e canonizzazioni. Tra i nuovi santi proclamati da P. furono Teresa di Lisieux, Roberto Bellarmino (dichiarato dottore della Chiesa assieme ad Alberto Magno, Pietro Canisio, Giovanni della Croce), Bernadette Soubirous, Giovanni Bosco, ecc. Ancora da riconnettere alle linee generali tracciate con le prime encicliche è l’immediata attenzione del papa al problema delle missioni. Dopo aver trasferito da Lione a Roma, con l’aiuto dell’allora monsignor Roncalli, l’"Oeuvre pour la propagation de la Foi” (1922) e avere delineato il suo programma missionario nel discorso per la Pentecoste del 1922, P. inviò monsignor C. Costantini come delegato apostolico in Cina – dove, nel 1924, presiedette il primo concilio nazionale cinese – e consacrò nel 1926 in S. Pietro i primi sei vescovi di quel Paese. Una serie di inviati papali, inoltre, partirono successivamente per l’Indocina, il Sudafrica, l’Africa inglese e il Congo belga, mentre venne data nuova sistemazione ai cristiani di rito malabarico e malankarese e attribuito specifico carattere “missionario” al giubileo del 1925. Nel corso di esso il pontefice fece organizzare in Vaticano una grande mostra missionaria che ebbe molto successo di pubblico e sollevò vasto interesse nella stampa e in quella parte dell’opinione pubblica che coniugava l’espansione missionaria con quella coloniale. Nell’enciclica Rerum Ecclesiae del 1926, riprendendo le linee essenziali già delineate da Benedetto XV nella Maximum Illud (1919), P. volle, invece, separare nettamente l’opera di evangelizzazione da qualsiasi interesse politico delle potenze europee e favorire l’indigenizzazione del clero (D. Veneruso, L’Italia fascista, pp. 31-5). Gli effetti si videro: negli anni 1922-1925 i fedeli soggetti alla Congregazione “de Propaganda Fide” passarono da dodici a diciotto milioni. D’altro canto le divisioni tra cristianità occidentale e orientale, osservate e sperimentate direttamente durante la nunziatura di Varsavia, spinsero il nuovo papa ad impegnarsi immediatamente sulla strada dell’unionismo resa difficile dalla debolezza delle istituzioni pur già esistenti. Tra il 1926 e il 1928, con la nomina di L. Sincero come prosegretario della Congregazione per la Chiesa Orientale e di A. Cicognani come assessore della medesima, P. tentò di rimettere in movimento processi a lungo paralizzati dall’inefficienza e, in un certo senso, favoriti da quanto stava accadendo in Russia. L’istituzione nel 1925 di una “Commissio pro Russia” – diretta dal Sincero con la collaborazione di monsignor M. d’Herbigny, che ne diventò presidente nel 1930, quando la commissione venne separata dall’Orientale e posta alle dirette dipendenze del pontefice, e preceduta nel 1922 da una missione di soccorso alle popolazioni russe affamate – testimonia del perdurare dell’idea di riportare, in qualche modo, l’ortodossia russa al cattolicesimo romano. Ma già nel 1927, con la morte del patriarca di Mosca Tikhon e la sempre più difficile situazione dei cattolici, le illusioni svanirono: qualche anno dopo iniziò “con un rilievo fortemente ideologico” l’antitesi tra la prima e la terza Roma (Mosca): “il grande problema per Roma non è tanto l’Unione Sovietica, ma l’eventuale estensione dell’influenza di Mosca ad altri paesi europei. Occorre prevenire il contagio rivoluzionario, mobilitando il mondo cattolico, sensibilizzando gli ingenui che possono credere ad una possibile collaborazione” (A. Riccardi, pp. X-XI). La sintonia con i regimi totalitari fascisti e nazionalcattolici fu quasi obbligata. Parallelamente alla politica “orientale” il pontefice mise in cantiere, affidandola al Gasparri, padre di quella pio-benedettina del 1917, la codificazione del diritto canonico orientale (ma solo nel 1948 verrà presentato a Pio XII uno schema quasi completo e definitivo e solo nel 1990 Giovanni Paolo II promulgherà il relativo codice). Nel 1928, comunque, si svolse a Roma il sinodo armeno e nel 1929 la terza conferenza episcopale ucraina; vennero gradualmente organizzati collegi per la formazione del clero dei Paesi orientali (etiopico, ruteno, rumeno, ecc.) e fu messa in cantiere la creazione di un collegio russo che si realizzò alla fine degli anni Venti sotto la direzione dei Gesuiti: il “Russicum” venne a completare il tessuto istituzionale della politica unionista di papa Ratti al cui servizio furono messe importanti risorse e un’intensa azione diplomatica. L’elezione nel 1925 di Basilio III al patriarcato ecumenico di Costantinopoli fu l’occasione di un primo, timido e incerto riavvicinamento tra Roma e Bisanzio. Su un altro fronte le “conversazioni private” di Malines con gli anglicani, sotto la regia del cardinale D. Mercier, impostarono un dialogo, purtroppo rapidamente interrotto, che riprenderà solo dopo il concilio Vaticano II. Certo Roma resta assente e reticente di fronte alle prime, concrete manifestazioni dell’ecumenismo alla fine degli anni Venti: con la Mortalium animos, del 6 gennaio 1928, P. condannò gli errori dei “pancristiani” e ribadì che ogni prospettiva unitaria non poteva che essere un ritorno a Roma delle Chiese separate. Ci vorranno più di trent’anni e la nascita del Consiglio ecumenico delle Chiese (1948) perché si giunga, nel 1960, alla creazione di un “Segretariato per l’unità dei cristiani” (E. Fouilloux, pp. 97-184). Sul piano della cultura, al di là dell’importanza attribuita dal pontefice alle scienze esatte e naturali, provata anche dalla creazione della Pontificia Accademia delle Scienze – dove vennero chiamati anche scienziati non cattolici -, e del suo ben noto interesse per la filologia e la filosofia (la costituzione Deus scientiarum Dominus del 1931 sull’istruzione ecclesiastica superiore venne considerata moderna e rigorosa), l’atteggiamento conservatore nel campo biblico mostra la ferma intransigenza di Ratti. D’altra parte P. non esitò a usare la persecuzione, anche con il tentativo reiterato di usare il “braccio secolare” del regime fascista, contro gli epigoni del movimento modernista e soprattutto il loro più illustre esponente, E. Buonaiuti (per altro privato della cattedra solo nel 1931 per il suo rifiuto del giuramento al fascismo e i cui allievi riuscirono, pur sotto l’occhiuta vigilanza del “censore” ecclesiastico, il gesuita P. Tacchi Venturi – personaggio centrale delle relazioni tra il Vaticano e Mussolini per tutto il Ventennio -, a colonizzare sostanzialmente gran parte delle “voci” religiose dell’Enciclopedia Italiana), e l’inserimento nell’Indice dei libri proibiti non solo di autori come G. D’Annunzio, ma anche di pensatori come B. Croce e G. Gentile, dà la misura dell’intransigenza di papa Ratti, ormai dimentico delle relazioni personali e delle aperture intellettuali dell’antico bibliotecario ambrosiano che, come si è ricordato, aveva ispirato Gallarati Scotti, frequentato von Hügel e lodato Dio per la grazia versata su P. Sabatier. Nell’arco del pontificato i problemi politici che P. si trovò ad affrontare non furono certo minori di quelli bellici cui dovette far fronte Benedetto XV o delle “rivoluzioni liberali” ottocentesche che si erano concluse con la perdita del potere temporale. La Rivoluzione d’ottobre in Russia, con la successiva nascita di partiti comunisti in varie parti del mondo cattolico, l’avvento del fascismo in Italia e del nazismo in Germania, le guerre coloniali del duce, l’asse Roma-Berlino, la guerra di Spagna, l’annessione dell’Austria al “Reich” hitleriano, lo smembramento della Cecoslovacchia, obbligano il papato, che ha recuperato con gli accordi del Laterano (11 febbraio 1929) il suo posto nella comunità delle nazioni, ad una pericolosa navigazione tra i numerosi scogli del mare delle ideologie. Nonostante l’esperienza, la preparazione e l’abilità di due segretari di Stato del calibro di Gasparri e di E. Pacelli, non poche delle scelte politiche del pontificato lasceranno tracce non facilmente cancellabili. In una Relazione sui vari Stati presentata al nuovo Pontefice Pio XI nel 1922 dalla Congregazione per gli Affari Ecclesiastici Straordinari si attira l’attenzione del papa su alcuni Paesi (Austria, Belgio, Bolivia, Cecoslovacchia, Francia, Germania, Grecia, Italia, Iugoslavia, Olanda, Palestina, Portogallo, Romania, Spagna, Svizzera, Ungheria) dei quali vengono sintetizzate la situazione politica e lo stato delle relazioni con la Santa Sede, le questioni diocesane e quelle patrimoniali. Se in Cecoslovacchia preoccupava il progetto di separazione tra Chiesa e Stato, l’iniqua legge francese del 1905 e la “spogliazione della Chiesa di Francia” inducevano a riflettere sulla necessità di restituire alla Chiesa una “posizione giuridica”, pur rimanendo da scegliere la strada più conveniente: era comunque allo studio la questione della nomina dei vescovi sulla base di un promemoria presentato nel maggio 1921 da M. Doulcet, inviato a Roma per trattative in vista della ripresa di relazioni diplomatiche. Se in Germania era all’ordine del giorno il problema del concordato bavarese e di un concordato con il Reich (era opportuno affrettare la conclusione del primo per accelerare quella del secondo) anche in Grecia si discuteva intorno ad un progetto di concordato. In Italia, ovviamente, la questione romana teneva tutto il campo. Contatti esistevano da tempo tramite il barone C. Monti (di cui ora sono noti i diari) e grazie ad “incontri ufficiosi con gli uomini politici d’Italia": non si dice però chiaramente al nuovo papa che i colloqui del maggio 1919 si erano svolti tra il presidente del Consiglio, V.E. Orlando, e l’inviato del cardinale Gasparri, monsignor Cerretti. Si assicura, comunque, che il governo italiano era ormai convinto della “necessità di una soluzione territoriale”, con un possibile sbocco al mare e con l’ammissione del nuovo Stato Vaticano alla Società delle Nazioni; quanto al Partito Popolare, veniva considerata “errata” la formula del partito “aconfessionale”, mentre avevano prodotto cattiva impressione le “affermazioni estremistiche e di marcata tendenza socialistoide proclamate” nel congresso di Napoli del 1919. Le relazioni diplomatiche con la Iugoslavia non avevano, invece, avuto effetto sulla politica governativa “apertamente ostile agl’interessi cattolici": era urgente, quindi, iniziare trattative per un concordato. In Olanda l’arrivo dell’internunzio apostolico nominato nel luglio 1921 aveva avuto effetti negativi “eccitando” la stampa e il protestantesimo “militante” per cui il cardinale Gasparri si era affrettato a richiamarlo. Ben note le posizioni vaticane sul mandato britannico per la Palestina (S. Minerbi, S. Ferrari): si temevano i grandi poteri conferiti ad un’amministrazione che “sarà giudaica o filogiudaica” e la creazione della, pur prevista, “national home” per gli ebrei che potrebbe finire per “distruggere lo spirito del Mandato”. In Portogallo dopo il recente ristabilimento delle relazioni diplomatiche ogni discussione su “separazione o concordato” era stata rinviata a quando il nunzio, giunto nell’estate del 1918, si fosse reso perfettamente conto della situazione, mentre era urgente la creazione di nuove diocesi. In Romania era in corso una lunga discussione sulla stipulazione di un concordato del quale erano stati predisposti diversi, successivi progetti che, pur se in sostanza giudicati positivamente dal Vaticano, avevano incontrato l’opposizione dei vescovi rumeni che non ritenevano “sufficientemente tutelati gli interessi cattolici”. Le questioni in discussione con la Spagna riguardavano essenzialmente i problemi religiosi del Marocco, per il dissidio franco-spagnolo, e di Tangeri, dove la Francia avrebbe voluto venissero estese le facoltà dell’ordinario militare di Parigi e dove la Spagna si opponeva all’invio di un francescano francese alle dipendenze del vicario apostolico spagnolo. In Svizzera – dove si calcolava vi fossero “circa 5000 framassoni” – la prima questione da risolvere era quella della “precedenza” del nunzio apostolico, ostacolata dal “decano”, ambasciatore di Francia, e successivamente, dopo il positivo intervento del governo di Parigi, bloccata dai membri “protestanti” del Consiglio Federale che erano riusciti a far “procrastinare indefinitivamente la risoluzione dell’affare”. Le note vicissitudini politiche dell’Ungheria, infine, e la sua situazione in “politica estera (…), irta di molte difficoltà derivanti dall’azione irredentista degli Ungheresi staccati dalla madre patria” avevano creato, nonostante la cordialità delle relazioni diplomatiche, ostacoli nella soluzione dei complessi problemi “d’indole territoriale diocesana”, mentre era del tutto aperta la questione della sopravvivenza dell’antico diritto di patronato regio “che i successori di Santo Stefano hanno sempre ritenuto di avere”. Dopo aver fatto decidere da una commissione di giuristi la successione della Repubblica nelle prerogative reali (tra cui la nomina dei vescovi), era sopravvenuto “il bolscevismo che dichiarò senz’altro la separazione”. La Santa Sede ne aveva approfittato per nominare un vescovo, ma il nuovo governo aveva rifiutato di riconoscerlo rivendicando i diritti della Corona di S. Stefano. La questione estremamente delicata era del tutto aperta (G.B. Varnier, pp. 6-46). Questa dunque la situazione di fatto che P. si trovò davanti all’inizio del 1922. Qualche mese dopo, la marcia su Roma e la presa del potere da parte di Mussolini cambiarono radicalmente il quadro politico italiano, ma il futuro duce, consigliato da A. Giannini, si inserì immediatamente nel solco della politica ecclesiastica “conciliatorista” degli ultimi governi liberali, che aveva il suo punto forte nelle intese parigine del 1919 tra V.E. Orlando e monsignor Cerretti, le quali prevedevano la conclusione sia di un accordo che assegnasse un piccolo territorio alla Santa Sede, sia di un concordato che regolasse la condizione della Chiesa e la vita religiosa in Italia. Sono ben note le tappe che portarono agli accordi del Laterano (11 febbraio 1929): il ripristino del crocefisso nei locali pubblici, l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole materne ed elementari, i sempre più stretti rapporti di Mussolini con l’inviato pontificio, padre Tacchi Venturi, la Commissione Mattei Gentili per la riforma della legislazione ecclesiastica del 1925 (della quale facevano parte due prelati indicati dalla Santa Sede), il progetto Santucci e il controprogetto Rocco di riforma della legge delle guarentigie, le trattative Barone-Pacelli, poi Mussolini-Pacelli, le pressioni di Mussolini su un Vittorio Emanuele III recalcitrante, la firma del trattato e del concordato l’11 febbraio 1929 nei Palazzi Lateranensi. Ma va ricordata anche la cornice giuridica dei rapporti della Santa Sede con gli Stati tracciata da Benedetto XV, con la regia di Gasparri, dopo la fine della prima guerra mondiale. Premessa una certa indifferenza teorica – sostenuta soprattutto da monsignor Pacelli in un “voto” del febbraio 1916 – sulla scelta tra una buona separazione e un concordato non sempre soddisfacente, il pontefice, nelle allocuzioni concistoriali Alloqui vos del 15 dicembre 1919 e In hac quidem del 21 novembre 1921, aveva deliberato l’estinzione dei concordati con gli Stati che avevano cambiato “natura” e modificato il territorio, e manifestato la disponibilità della Santa Sede per nuovi accordi concordatari con “civitates funditus novatae” (R. Astorri, pp. 208-23). Sarà, pertanto, P. l’effettivo protagonista dell’azione concordataria della Chiesa nel secolo che corre grosso modo dal Vaticano I al Vaticano II. Dal concordato con la Lettonia (1922) ai concordati austriaco e germanico del 1933 e iugoslavo del 1935 – passando per quelli della Baviera (1924), Polonia (1926), Lituania (1927), Romania (1927), Cecoslovacchia (1928), Italia (1929), Prussia (1929), Baden (1932) e per gli accordi parziali con la Francia del 1924 e 1926, con il Portogallo e con l’Ecuador (1937) – le strutture normative e le sistematiche delle relazioni tra la Chiesa di P. e gli Stati si caratterizzarono sempre più rigidamente nel senso della bilateralità, della consacrazione civile dei principi fondamentali del diritto canonico, della progressiva secolarizzazione delle istituzioni religiose e dei contesti sociali, del rafforzamento delle impalcature gerarchiche e centralizzate – con l’esclusivo dominio dell’autorità pontificia – grazie alla costante utilizzazione del “braccio secolare”, ma anche del controllo politico, da parte di chi deteneva il potere, spesso dittatoriale, sulla vita religiosa. Le strette connessioni e le reciproche influenze tra la codificazione canonica del 1917 – che trovava così ampia rilevanza negli ordinamenti positivi degli Stati – e la fioritura concordataria del pontificato Ratti sono state ampiamente dimostrate (A. Bertola, R. Astorri); meno segnalato che esse coincidano con la nascita e lo sviluppo del totalitarismo e che i concordati più importanti siano quelli stipulati dalla Santa Sede con regimi totalitari: quello italiano, quello del Reich e quello austriaco, sui quali si modelleranno, successivamente, gli accordi con Franco in Spagna e con Salazar in Portogallo e le stesse iniziative concordatarie della Francia di Vichy. Stato totalitario, partito e potere totalitari, caratterizzati da “assenza di strutture e controlli parlamentari, presenza di un partito unico, rifiuto del pluralismo liberale a pro dell’unitarismo e dell’onnicomprensività”, sono presenti “nelle culture fascista, nazional socialista e falangista, seppure con accenti spesso assai diversi” (D. Fisichella, pp. 18-20). Nel contesto totalitario, pertanto, in virtù della alleanza concordataria, la Chiesa diventa tipico “instrumentum regni” e, nella comunità internazionale, contribuisce efficacemente alla legittimazione dello Stato totalitario agli occhi degli Stati (cattolici o non) democratici o non-totalitari; all’interno, le istituzioni cattoliche, pur ispirate essenzialmente a motivi pastorali, finiscono per trovarsi ad agire a guisa di strumento di controllo e di condizionamento sociale, a tutto vantaggio del regime politico. Sia in Italia sia in Germania, inoltre, la Chiesa sacrificò sull’altare dell’intesa concordataria qualsiasi pretesa di cattolicesimo politico (il Partito del Centro tedesco e il Partito Popolare Italiano dovettero uscire, volenti o nolenti, dalla scena politica) e in Austria la proclamata fedeltà alla Chiesa dello Stato autoritario-corporativo di Dollfuss venne, dopo l’annessione alla Germania, sostituita dall’ostilità dell’occupante germanico. Gli stessi interventi di P. in occasione della guerra di Spagna, anche se inizialmente più cauti dell’oltranzismo dei vescovi spagnoli – che nella “Pastorale collettiva” del 1937 faranno una totale e incondizionata difesa dell’"alzamiento militar” di Franco e della Falange – si conclusero con il riconoscimento ufficiale del “Caudillo” e con l’invio, nel luglio 1937, di monsignor Antoniutti come incaricato d’affari. Nel maggio del 1938 monsignor G. Cicognani verrà nominato nunzio apostolico presso il governo nazionale a Salamanca; nel giugno successivo la presentazione delle credenziali da parte dell’ambasciatore franchista a P., colma di espressioni proprie della “cruzada”, avrebbe fatto una molto buona impressione in Vaticano. Certo è che, nel gennaio del 1939, “L’Osservatore Romano”, con l’autorevole penna del maestro del Sacro Palazzo, padre M. Cordovani, denuncerà severamente I grandi cimiteri sotto la luna di G. Bernanos e le posizioni assunte dal cattolico A. Mendizabal, professore a Oviedo e presidente del Comitato per la pace civile: due noti esponenti della cultura cattolica. Impossibile, per Cordovani, mettere comunque sullo stesso piano i falangisti, cristianamente ispirati, e il governo legittimo ispirato da “una tirannide barbarica che ha tentato di fare della Spagna una succursale della Russia e che mette a soqquadro l’Europa intera” (2-3 gennaio e 16-17 gennaio 1939). Le coincidenze di interessi tra la Chiesa di P. e Stati totalitari quali la Germania, l’Italia e la Spagna consistevano essenzialmente nel considerarsi reciprocamente alleati contro i comuni nemici: il liberalismo, il razionalismo, l’ateismo e soprattutto il socialcomunismo. Lo stesso Dollfuss, nei colloqui dell’aprile 1933 con P. e Pacelli, ebbe la netta impressione che il cardine di tutta la politica vaticana fosse la lotta al socialismo e al bolscevismo; ed anche Mussolini, ricevuto dal papa dopo il superamento della crisi del 1931 per l’Azione Cattolica, riportò puntualmente a Vittorio Emanuele III che Ratti, mentre considerava le dottrine fasciste nel complesso conformi alle concezioni cattoliche e si spiegava la “reiterata affermazione del totalitarismo fascista”, era assai preoccupato per il comunismo che si era alleato alla massoneria e al giudaismo (A. Corsetti, p. 93). Ancora nel 1933 F. von Papen aveva dichiarato all’ambasciatore d’Italia a Berlino, V. Cerutti, che il papa, pur perplesso di fronte ad alcuni provvedimenti di Hitler, si era deciso a firmare il concordato sia per gli evidenti vantaggi per l’organizzazione ecclesiastica tedesca, sia, soprattutto, per “l’indiscutibile servizio reso all’umanità e alla religione dall’attuale capo del Reich combattendo in modo così energico il comunismo e opponendosi al suo dilagare in Europa” (L. Volk, pp. 232-33). E lo stesso papa dirà nell’ottobre 1936 all’ambasciatore d’Italia, B. Pignatti, che, pur certo della vittoria dei “nazionali”, temeva che venisse instaurato in Catalogna uno Stato bolscevico il quale, ove si concretasse, “costituirebbe alla lunga un pericolo oltre che per la Spagna, per la Francia e in genere per tutto l’Occidente europeo” (F. Margiotta Broglio, L’istituto concordatario, p. 37). Con i fascismi italiano e spagnolo, d’altro canto, il cattolicesimo si trovava ad avere non pochi punti in comune: dal volontarismo implicito come fondamento di una fede che riconosceva sì il valore, ma anche i limiti della ragione, alle concezioni tradizionali nel campo dell’etica familiare, ai criteri organizzativi basati sull’autorità e sull’ordinamento gerarchico. In Italia e in Spagna l’alleanza concordataria era, del resto, collegata ad un ben preciso disegno: far rivivere lo Stato cattolico, servirsi del regime totalitario per rafforzare il potere gerarchico nella Chiesa e per dare piena esecuzione, nel diritto dello Stato, alle decisioni e ai provvedimenti del potere spirituale. Fare, in una parola, dello Stato totalitario uno strumento sicuro “per il ritorno a una situazione politico-sociale che sembrava rappresentasse la premessa per la realizzazione successiva di una società veramente ierocratica” (G. Miccoli, La Chiesa e il fascismo, p. 196). Diversi e più complessi i termini del rapporto con il nazionalsocialismo tedesco anche per il pluralismo confessionale di quello Stato. Se questo, infatti, si fosse identificato con una delle due confessioni numericamente dominanti – la cattolica e la luterana – si sarebbe, fin dall’inizio, attirato l’ostilità dell’altra metà della popolazione. La base dell’intesa restava, quindi, più esigua rispetto a quella degli altri Stati totalitari, mentre, sul piano ideologico, il nazismo era obbligato a risalire a tradizioni comuni a tutti i Tedeschi, indipendentemente dalla divisione confessionale, quindi al passato germanico precristiano che comportava quegli elementi “neopagani” che porteranno P., nel 1937, a definire le concezioni nazionalsocialiste “culto idolatrico” che “perverte e falsifica l’ordine da Dio creato e imposto”. I caratteri generali dei concordati del totalitarismo (Italia, Austria, Germania: ma li ritroveremo dopo la morte di P. anche in quelli con il Portogallo e la Spagna) vanno, anzitutto, nel senso dell’unicità d’indirizzo del diritto concordatario e della formazione di un diritto comune concordatario favorita dai sostanziali parallelismi degli ordinamenti e delle esperienze dei totalitarismi quali si dettero negli anni tra le due guerre mondiali. Non poche le disposizioni pattizie che eliminavano i diritti particolari di alcune Chiese (specialmente tedesche e, in Italia, ex austroungariche) e accentuavano il regime centralistico della codificazione canonica del 1917. Peculiare anche il tipo di procedimento – sostanzialmente analogo – per il controllo statuale delle nomine dei vescovi, direttamente o indirettamente sottoposte al nulla osta statale, volto a garantire che persone non omogenee politicamente potessero rivestire un’autorità che, proprio per la natura pubblicistica che i concordati conferivano alla carica di vescovo, avrebbe potuto minare il carattere antipluralistico del regime. Basilare anche il riconoscimento concordatario della capacità di enti canonicamente eretti di acquistare, possedere e amministrare i beni ecclesiastici, ma essenziale la clausola che vietava ogni attività di carattere politico (ma anche culturale, sindacale, sportivo ecc.) del clero e delle associazioni del laicato cattolico. Tipica, inoltre, la consacrazione civile della giurisdizione spirituale (basti ricordare le disposizioni dell’accordo italiano del 1929 sull’esclusione da ogni ufficio a contatto col pubblico dei “sacerdoti apostati o irretiti da censura”, l’ultimo colpo inferto all’inerme Buonaiuti) e il conseguente impegno dello Stato a far eseguire provvedimenti ecclesiastici. Si aggiungano l’esenzione del clero da ogni carica civile incompatibile in base a disposizioni canoniche e il quasi generale esonero dalle imposte per gli enti ecclesiastici; l’insegnamento religioso sostanzialmente obbligatorio nelle scuole e il regolamento della questione “scolastica” confessionale; l’efficacia civile dei matrimoni religiosi e il riconoscimento delle sentenze ecclesiastiche in materia con l’indissolubilità anche civile di tali matrimoni (ma nel caso italiano tale indissolubilità era già assicurata dalle leggi); il controllo e la diretta dipendenza delle associazioni di azione cattolica – che pure sopravvivevano là dove era ormai abolito il diritto di associarsi – dalle autorità ecclesiastiche che diventavano responsabili, di fronte al regime, della loro lealtà politica. Un punto, questo, che Hitler considerò qualificante nell’accordo con il Vaticano e nel quale, invece, Mussolini in più occasioni trovò il pretesto per polemizzare con la Santa Sede. In ultima analisi il tipo di Chiesa al quale la normativa concordataria di P. dette vita in Italia, Germania e Austria soddisfaceva le aspirazioni alla centralizzazione – in un certo senso anch’essa “totalitaria” – del pontificato Ratti che, soprattutto in Germania e in Austria, riuscì ad eliminare i diritti particolari di alcune Chiese locali e a limitare radicalmente la posizione e i diritti dei vescovi e dei Capitoli metropolitani in tutti gli Stati regionali tedeschi nei quali vigeva ancora il sistema dell’elezione episcopale e in quella provincia ecclesiastica di Salisburgo dove non solo il Capitolo eleggeva un arcivescovo, ma questi aveva il diritto di nominare i titolari di tre diocesi che rientravano nella sua giurisdizione. Si realizzava così quella stretta dipendenza degli episcopati da Roma che il regime nazionalsocialista era pronto a favorire anche per assicurarsi, attraverso i controlli romani, quella lealtà che, per gli stretti legami tra vescovi tedeschi e Centro cattolico, sarebbe stato più difficile ottenere dal tradizionale sistema di autonomia ecclesiastica. Un discorso particolare, comunque, quello relativo all’Italia che non solo, come disse P., era stata restituita a Dio, ma aveva restituito al papato una pur simbolica sovranità temporale. In realtà con l’avvento del fascismo non si era data una vera frattura con la politica ecclesiastica precedente: come già accennato, la svolta nei rapporti tra il governo e la Santa Sede si era avuta dopo il discorso di Mussolini del 3 gennaio 1925 che segnò la fine del vero e proprio fascismo per dar vita ad un regime nettamente condizionato dalle forze conservatrici dei nazionalisti e della destra popolare.
Non è un caso che la soluzione della questione romana avvenne, nel 1929, proprio sulle basi che Alfredo Rocco aveva sommariamente formulato fin dal 1914 e ampiamente ripreso e individuato nell’aprile 1922: “Da parte dello Stato la rinuncia al vecchio programma liberale dello Stato laico, della separazione fra Chiesa e Stato, dello Stato indifferente in materia religiosa. Da parte della Chiesa la rinuncia a un disegno di rafforzamento interno per la sua necessaria espansione esterna” ("Il Resto del Carlino”, 4 aprile 1922). Gli farà eco, all’indomani della Conciliazione, P. che, parlando a docenti e studenti dell’Università Cattolica, riconoscerà in Mussolini ("uomo (…) che la Provvidenza ci ha fatto incontrare") il politico che non aveva più “le preoccupazioni della scuola liberale, per gli uomini della quale tutte quelle leggi, tutti quegli ordinamenti, o piuttosto disordinamenti (…) erano altrettanti feticci e proprio come i feticci tanto più intangibili e deformi”. D’altro canto di fronte alle difficoltà attraversate da Mussolini dopo il delitto Matteotti e, quindi, di fronte alla scelta tra la deprecata ipotesi di un accordo “positivo” tra popolari e socialisti (ritenuto non conveniente, inopportuno e illecito), la prospettiva di un governo liberale (o, peggio, democratico) e la prevalenza dei fascisti intransigenti che tendevano alla integrale fascistizzazione della società, la Santa Sede scelse la strada dell’avallo indiretto della svolta autoritaria di Mussolini del 3 gennaio 1925, che aveva già trovato quello della Corona, dell’esercito e, in genere, degli ambienti conservatori. Essa contribuì decisamente, in tal modo, al rafforzamento del carattere nazionale e moderato del fascismo e aprì la strada alla Conciliazione: poco dopo, lasciata cadere ogni ipotesi diversa, inizieranno le trattative per i Patti del Laterano. Una “pace” che si inseriva pienamente nella tradizione clerico-nazionalista e che, grazie anche all’eliminazione delle ali intransigente e liberale del fascismo, poté concretarsi proprio dopo la “controrivoluzione” del 1925-1926 che, oltre a segnare la rottura della legalità statutaria, consacrava la definitiva prevalenza, ai vari livelli del potere politico, di quella leva che, come vide lucidamente A.C. Jemolo, “non domanda ai suoi appartenenti se credano o meno, ma che ha fatto propri tutti quei rancori contro il liberalismo, contro la rivoluzione, contro le tavole di valori giacobine, con l’intensità che tali rancori avevano avuto nei vinti intorno al 1860”, che scorge nella religione il cemento nazionale, che “in quanto a essa si accorda” vede la “rivincita contro gli odiati risorgimentali, contro i giacobini d’ieri e di sempre” (La tradizione, p. 265). Quando il fascismo affiancò al trattato, al concordato e alla convenzione finanziaria dell’11 febbraio 1929 con la Santa Sede una serie di disposizioni unilaterali per regolare la vita delle altre confessioni religiose, compresa l’ebraica, non più “tollerate” ma “ammesse” (1929 e 1930) – che pure introducevano gravi discriminazioni e diversità di trattamento per le minoranze non cattoliche – la Santa Sede non esitò a manifestare il suo malcontento, ma, grazie al radicale cambiamento della condizione giuridica del papato e della Chiesa italiana, le relazioni tra le due sponde del Tevere si mantennero sostanzialmente buone per tutto il pontificato Ratti, anche se nessuna delle due parti riuscì a raggiungere gli scopi che si era prefissa: quello di ricostruire in Italia uno “stato cattolico”, da parte del papa, e quello di “fascistizzare” la Chiesa da parte del duce. I momenti di crisi – avvertiti già nel corso delle trattative concordatarie – si ebbero nel 1931 e nel 1938 e furono collegati alle polemiche per l’Azione Cattolica che la Santa Sede, all’ombra dei privilegi lateranensi, intendeva trasformare in una sorta di grande congelatore per ibernarvi i cattolici militanti, tutelandoli dall’inquinamento ideologico, in attesa di tempi migliori che ne consentissero la trasformazione in classe dirigente per sostituire quella fascista, o, nella peggiore delle ipotesi, per fronteggiarla nell’impossibilità di “cattolicizzarla”. Con gli accordi del 1931 il regime ottiene, comunque, la riaffermazione del carattere esclusivamente religioso, della diocesanità e della stretta dipendenza dalla gerarchia ecclesiastica dell’Azione Cattolica; con quelli del 1939 una sospensione delle ostilità pontificie, preludio alla riforma degli statuti del 1939 che verranno giudicati conformi ai desideri del governo. In realtà l’accordo del 2 settembre 1931 non riuscì a dissolvere rancori e diffidenze reciproche, ma solo a convincere le due parti ad evitare ulteriori contrasti e a sfruttare la conclusa “alleanza” per soddisfare gli specifici, reciproci interessi. Era stato, anche, un successo per il duce che aveva, in sostanza, obbligato P. a ritirare le riserve solennemente avanzate nell’enciclica Non abbiamo bisogno (29 giugno 1931) ed a ridurre gli spazi di operatività dell’Azione Cattolica ben oltre il dettato concordatario, eliminando, anche, definitivamente dalla dirigenza delle associazioni tutti coloro che in qualche modo erano appartenuti a partiti antifascisti, in primo luogo il Partito Popolare di Luigi Sturzo, obbligato, nella prospettiva dell’intesa concordataria, all’esilio già nel 1924. La storiografia ha sottovalutato i contenuti dell’incontro di Mussolini con P. l’11 febbraio del 1932, riferiti in dettaglio a Vittorio Emanuele III: nel corso di esso il papa si era compiaciuto per la ristabilita compatibilità tra Partito e Azione Cattolica e aveva ribadito di non vedere nei principi fascisti di ordine, disciplina e autorità nulla che fosse contrario alle concezioni cattoliche, spiegandosi le reiterate affermazioni del “totalitarismo fascista”, al quale, per gli interessi delle anime, doveva affiancarsi però il “totalitarismo cattolico”. Significativo, in particolare, quanto P. avrebbe riferito al duce sulla situazione del mondo (il “triangolo dolente” Messico, Spagna, Russia) e su quello che riteneva il motore internazionale dell’azione antireligiosa: “Sotto c’è l’avversione anti-cristiana del giudaismo. Quando ero a Varsavia vidi che, in tutti i reggimenti bolscevichi, il commissario civile o la commissaria erano ebrei” (A. Corsetti, pp. 112-15). Gli ebrei italiani, secondo il papa, facevano però “eccezione”. Tenendo conto del sostanziale sostegno vaticano alla politica di Mussolini e del positivo sviluppo dei rapporti concordatari (si pensi solo al gran numero di matrimoni religiosi con effetti civili o al ritrasferimento di beni agli istituti religiosi già soppressi, alla presenza di “catechisti” nelle scuole di ogni ordine e grado, all’incremento del cappellanato militarizzato, ecc.) non può che accogliersi la tesi di De Felice sulla crisi dei rapporti papato-fascismo emersa nel 1938. Più che dalla legislazione razziale o dal sempre più stretto avvicinamento al nazismo (non vi fu, ad esempio, alcuna esplicita condanna dei due regimi “come responsabili del progressivo aggravarsi del pericolo di guerra”, anzi P. avrebbe rimproverato al cardinale di Parigi, P. Verdier, di voler contrapporre un asse Vaticano-Francia a quello Roma-Berlino), la riapertura delle ostilità contro l’Azione Cattolica appare dovuta alla ulteriore “svolta totalitaria” impressa dal regime nella seconda metà degli anni Trenta e a quella che è stata definita “la rivoluzione culturale che ne costituì il sostrato” (R. De Felice, II, pp. 136-37). Come risulta anche dal diario di Ciano, Mussolini vide nel rilancio dell’Azione Cattolica la precostituzione di strutture preparate per la successione al fascismo. L’azione capillare di logoramento per intimidire i militanti cattolici non poté che provocare la durissima reazione di P. il quale, nel gennaio del 1938, avrebbe minacciato Mussolini, attraverso il solito padre Tacchi Venturi, di scomunica del fascismo e del regime. Nell’agosto, grazie ai buoni uffici del gesuita, si arrivò all’accordo Starace-Vignoli che, se non compose il conflitto, segnò almeno una sospensione delle ostilità. Venne riaffermato il valore e il vigore dell’accordo del 1931 ed eliminata l’incompatibilità tra iscrizione all’Azione Cattolica e al Partito Fascista, fu disposta la restituzione delle tessere fasciste ritirate (con perdita di uffici e impieghi) e venne assicurato dal governo che il problema razziale sarebbe stato “definito in sede scientifica e politica (…) con la doverosa applicazione di onesti criteri discriminativi”; agli ebrei non sarebbe stato inflitto “trattamento peggiore di quello usato loro per secoli e secoli dai Papi”; era però desiderio del duce che stampa cattolica, predicatori, conferenzieri “e via dicendo, si astengano dal trattare in pubblico questo argomento”; Mussolini era, comunque, disponibile a considerare le osservazioni che, “in via privata” la Santa Sede ritenesse di sottoporgli “per la migliore soluzione del delicato problema” (M. Paronetto Valier). Solo a metà del 1939, comunque, Mussolini otterrà una certa normalizzazione della situazione con la riforma degli statuti dell’Azione Cattolica. Ma, a dieci anni dai Patti Lateranensi, era chiaro che il regime non era riuscito ad assorbire i grandi poteri che gli avevano consentito, dopo il 1925, di consolidare la dittatura. Corona, esercito e grande borghesia saranno le forze che riusciranno a detronizzarlo il 25 luglio 1943. Il ruolo del papato in quell’occasione è ancora tutto da scoprire. È invece più evidente, ora, grazie anche alla pubblicazione di un progetto di enciclica (Humani generis unitas) contro il razzismo e l’antisemitismo, che P. decise di far preparare alla fine di giugno del 1938, la svolta della posizione papale nei confronti della Germania e del nazismo, il passaggio da testi di compromesso, come la Non abbiamo bisogno del 1931, a condanne più chiare e più dure come l’enciclica Mit brennender Sorge del 14 marzo 1937 – scritta dal cardinale M. Faulhaber arcivescovo di Monaco e integrata personalmente dal segretario di Stato, E. Pacelli – contro le violazioni del concordato e la divinizzazione del Reich, contro il nazismo, le sue teorie, la sua azione. Certo con la coeva Divini Redemptoris – di cui si è sottolineata la maggiore intransigenza – era stato fermamente e rigorosamente condannato, quasi in parallelo, il comunismo – “satanico flagello” – a conclusione di una complessa vicenda, iniziata con la Rivoluzione d’ottobre e aggravata dalle persecuzioni religiose in Russia, che aveva spinto la Santa Sede ad estendere il suo interdetto ad ogni forma di socialismo o di progressismo, anche “cristiano” (sempre scarsa nel pontefice la simpatia per i partiti cattolici che, in definitiva, disturbavano – come pure faceva l’Action Française di C. Maurras – quello che doveva essere il “monopolio” dell’Azione Cattolica alle strette dipendenze della gerarchia ecclesiastica). E, forse, fu un po’ “vedere rosso” il collegare al comunismo l’anticlericalismo persecutorio del Messico, severamente colpito da ben tre encicliche (1926, 1932, 1937). Ma la forte coscienza, sia pure al termine del pontificato, delle pericolosità del paganesimo nazista e di un antisemitismo che andava ben al di là dell’antico antiebraismo ecclesiastico, appare evidente dal progetto di enciclica e dal discorso del 6 settembre del 1938, quando, davanti ai pellegrini della radio cattolica belga all’indomani dei primi provvedimenti razziali fascisti, P., visibilmente commosso, aveva dichiarato che l’antisemitismo è incompatibile con il pensiero e la realtà biblica, che “noi siamo della discendenza spirituale di Abramo, (…) siamo spiritualmente dei semiti” (ma “L’Osservatore Romano” e la “La Civiltà Cattolica”, riferendo sull’udienza, omisero ogni riferimento al problema ebraico): “una dimensione di contrapposizione e di rifiuto dell’antisemitismo che è sostanzialmente nuova nel magistero ecclesiastico” (G. Miccoli, I dilemmi e i silenzi, p. 309). Alla fine di giugno, comunque, il papa aveva affidato al gesuita americano J. La Farge l’incarico di preparare, appunto, la bozza di un’enciclica contro il razzismo e l’antisemitismo di cui il papa “aveva esposto il tema nelle sue grandi linee, il metodo da seguire, i principi da osservare” (G. Passelecq-B. Suchecky, p. 83). La Farge, chiese al generale dei Gesuiti, W. Ledóchowski, di associargli due esperti: il francese G. Desbuquois e il tedesco G. Gundlach; il padre H. Bacht si sarebbe poi occupato della versione latina dell’enciclica. La preparazione si svolse nel più rigoroso segreto a Parigi e alla fine di settembre La Farge consegnò la bozza a padre Ledóchowski perché la facesse pervenire al papa. Questi avrebbe prima sottoposto il testo francese al padre E. Rosa, de “La Civiltà Cattolica” (autore di non pochi articoli antiebraici) per averne un parere, e poi lo avrebbe trattenuto presso di sé fino alla metà di gennaio 1939. Il testo, accompagnato da una nota di sollecito di monsignor D. Tardini, sarebbe stato trovato sulla scrivania del papa il giorno successivo alla sua morte, avvenuta il 10 febbraio 1939. Come osserva Miccoli “nulla si può dire, allo stato attuale della documentazione, delle eventuali reazioni di Pio XI alla lettura del testo (né d’altra parte si sa con certezza quale o quali versioni gli siano state inviate)”, anche se l’idea dell’enciclica e della sua pubblicazione “si inseriscono, accentuandola, in quella ’svolta’ nei confronti delle potenze totalitarie e delle loro ideologie che Pio XI venne chiaramente maturando nel corso della seconda metà del 1938” (I dilemmi e i silenzi, p. 316). Rispetto alla Mit brennender Sorge, comunque, la condanna contenuta nel progetto La Farge/Desbuquois/Gundlach, veniva espressamente e chiaramente estesa dal neopaganesimo razzista all’antisemitismo in quanto tale. E il nesso tra razzismo e antisemitismo, colpiti unitariamente, non poteva che derivare “da precise indicazioni del papa” (ibid., p. 319). Resta aperto il problema del peso di Pacelli nella “svolta” pontificia del 1938 alla luce del suo ruolo determinante nella redazione della Mit brennender Sorge e dei suoi stretti contatti di quei mesi con la Francia e gli USA, e quello delle ragioni che indussero il medesimo, diventato Pio XII, a non riprendere il testo dell’enciclica che non solo gli era noto ma che sarebbe anche stato sottoposto, all’indomani del conclave, alla prima riunione del nuovo papa con i cardinali tedeschi (ibid., p. 323). Quella del ruolo di Pacelli e, fino al febbraio 1930, di Gasparri (due segretari di Stato di grandissima preparazione ed esperienza e di forte personalità) nelle decisioni politiche di papa Ratti – dall’autorizzazione a Gasparri ad incontrarsi in segreto con Mussolini già a pochi mesi dalla marcia su Roma alla decisione di radicalizzare il contrasto con la Germania e il nazismo alla fine del pontificato – è questione che non può essere risolta fino a quando gli archivi vaticani non consentiranno lo studio dei documenti almeno sino alla fine della seconda guerra mondiale (qualche documento, non criticamente vagliato, dell’OVRA e degli informatori vaticani della polizia, in C.M. Fiorentino, pp. 7-84, 215-24). Anche il dosaggio nelle nomine dei cardinali e dei vescovi delle “grandi” diocesi del mondo non è, per ora almeno, direttamente attribuibile al pontefice che manifestava il suo pensiero più genuino in numerosi interventi e discorsi non preparati preventivamente. Né è possibile sciogliere le non poche contraddizioni di un pontificato che non avrebbe lasciato immaginare ai democratici francesi plaudenti per la condanna dell’"Action Française” (1926) la firma dei concordati con Mussolini ed Hitler; a coloro che lo avevano visto, con interesse, firmare il 12 marzo 1922 un trattato con la Russia per favorire la ricostruzione e combattere la fame di quei popoli e che assistettero alla condanna senz’appello del comunismo; allo stesso Mussolini, che aveva personalmente verificato la scarsa simpatia di P. verso gli ebrei nel 1931 e che verificò la pur tardiva ma violenta reazione contro le leggi razziali e l’antisemitismo. Un antisemitismo che, per quanto riguardava l’Italia, aveva radici ben profonde nella tradizione antiebraica cattolica che ebbe modo di esprimersi anche quando il pontefice sembrava ormai aver cambiato indirizzo. Grazie al trattato con l’Italia fascista nel 1929 il papa era riuscito, da una parte, a chiudere la questione romana – aprendo spazi sempre più grandi per una presenza della Chiesa nella società italiana -, dall’altra a recuperare, grazie alla pur quasi simbolica sovranità territoriale, una posizione di primo piano nella comunità internazionale, che dette al papato un’udienza mai conosciuta sia a livello di governi sia di pubbliche opinioni, e gli consentì di sviluppare ampiamente il sistema delle rappresentanze diplomatiche (del papa e presso il papa). Di lui, peraltro, le immagini che restarono nell’opinione pubblica e nella storiografia sono assai diverse a seconda dei Paesi che si prendono in considerazione. Se, ad esempio, la Francia vide in lui il papa della pace e della democrazia (anche se alla condanna dell’"Action Française” era seguita quella del periodico “Sept"), l’Italia fascista lo considerò un potente alleato e un interlocutore privilegiato del duce (anche da contrapporre, se necessario, alla dinastia sabauda), ma P. riuscì, in qualche modo, a preservare una parte del laicato cattolico dall’indottrinamento del regime, e la Spagna di Franco lo esaltò come il più alto e prestigioso sostegno del golpe franchista. Certo la sua idea di Chiesa – e lo si vedrà chiaramente con il Vaticano II – non era aggiornata con i profondi mutamenti del mondo nel quale la “nuova cristianità” di papa Ratti – fondata sulla centralizzazione autoritaria di Roma e sulla tesi teologica della “Regalità” di Cristo che sarà travolta dalla “shoah” – non aveva alcuna concreta possibilità di fronteggiare, con le sue armi ottocentesche e con le debolezze derivanti dalle perduranti separazioni fra le Chiese, le statolatrie capitalistiche che, rimestando nei peggiori sedimenti del nazionalismo e del razzismo, misero a ferro e fuoco l’Europa cristiana e il mondo all’indomani della morte di Pio XI. Ci vorranno cinquant’anni e l’arrivo di un papa slavo per vedere chiuso definitivamente il capitolo aperto nel 1914, a Sarajevo, da uno studente bosniaco. fonti e bibliografia
 
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Lettere dalla Polonia di Mons. Achille Ratti, a cura di N. Storti, Lissone 1990.
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