Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  luglio 01 Mercoledì calendario

Il sessanta per cento dei musulmani pensa che la fede islamica, in Italia, sia osteggiata. Si sentono discriminati, forse addirittura perseguitati, e l’Isis ne approfitta

Ogni volta sgraniamo gli occhi e cediamo allo stupore. Non ci rendiamo conto che stiamo avanzando lungo un binario su cui, prima di noi, si sono mossi altri Paesi, a partire dalla Francia. Un’indagine della Fondazione Moressa realizzata due giorni fa fra i musulmani italiani ha mostrato che il 3,1% degli intervistati è convinto che lo Stato islamico stia operando per «diffondere il vero islam». Su un totale di circa un milione e seicentomila fedeli di Allah presenti in Italia, cinquantamila persone sostengono i tagliagole, gli assassini che ci considerano figli del demonio. Un’unica forza fa pulsare il loro cuore, lo stesso sangue amaro gonfia le loro vene: si chiama risentimento, ed è la principale causa della radicalizzazione. Secondo la medesima indagine della Fondazione Moressa, infatti, oltre il sessanta per cento dei musulmani pensa che la fede islamica, nel nostro Paese, sia osteggiata. Si sentono discriminati, forse addirittura perseguitati. Anche se sul piano personale e magari pure professionale si sentono realizzati, sono convinti che nei confronti dei loro fratelli ci sia un atteggiamento negativo. Ecco che il risentimento continua a pulsare, riempie le menti e le bocche.
«Il mio maestro diceva che l’islam è come una pietra incandescente, se la tieni in mano rischi di bruciarti», dice, utilizzando un’immagine potente, il napoletano Danilo Alì. È giovane, ed è uno dei protagonisti di un bellissimo documentario intitolato Napolislam, in sala in questi giorni. Lo ha scritto e diretto Ernesto Pagano, Ladoc e Isola film lo hanno prodotto. In questa pellicola si intrecciano le storie di dieci persone, dieci italiani di Napoli tutti convertiti all’islam. Loro, la pietra incandescente la tengono in mano e chissà se si rendono conto di quanto potrebbero ustionarsi. Forse, in fondo, è una certa forma di radicalità che i convertiti cercano. Vedono nell’islam una risposta. «Una risposta all’ingiustizia sociale, al consumismo sfrenato, al blackout della speranza», spiega il regista nella nota per la stampa. Siamo di fronte a una scelta che, seppure talvolta inconsciamente, è politica, poiché è una reazione all’Occidente, vissuto come ingiusto e corrotto. Non è un caso se uno dei convertiti di Napolislam è un militante di estrema sinistra: «Salvatore è diventato Muhammad e adesso preferisce Maometto a Che Guevara», scrive il regista del film, «perché ha capito che l’unico modo di portare la giustizia nella società è instaurare la shari’a». Poi c’è Francesco, che sta partendo per Londra in cerca di un lavoro che in Italia non trova. Anche per lui l’islam è una risposta. A che cosa? Sentite: «Prima Francesco pensava solo alle donne, alle lampade solari e alle scarpe firmate: tutti trucchetti di Satana per farti perdere la retta via, spiega alla sorella Teresa».
Danilo Alì, il ragazzo della metafora della pietra rovente, è più spirituale e tranquillo. La sua passione è la musica rap. Anche questo non è un caso. Fa parte della retorica antisistema di molto hip hop la polemica contro Babilonia, la terra marcia dell’uomo bianco oppressore. Il giornalista Harry Allen ha definito l’islam «la religione non ufficiale dell’hip hop», e sono moltissimi gli artisti rap convertiti. Spesso dopo un percorso politico: il riscatto dei neri ha incontrato sul suo cammino la religione musulmana. Dopo tutto, il rap dà voce al risentimento. Era un rapper uno dei fratelli Kouachi, gli attentatori di Charlie Hebdo. Era un rapper Deso Dogg, celebre combattente dello Stato islamico. Lo era pure, col nome di Lyricist Jynn, Abdel-Majed Abdel Bary, altro jihadista che fu inizialmente sospettato di essere Jihadi John. Ballava breakdance (una disciplina dell’hip hop) anche uno degli attentatori tunisini. Ovvio, la radicalizzazione non passa necessariamente per il rap, e non tutti i rapper musulmani stanno con i jihadisti. Però i rapper esprimono un risentimento, che va indagato se vogliamo capire come nasce quel 3 per cento di musulmani che apprezza l’Is. «La cultura hip hop attrae chi ha bisogno di sfogarsi», mi spiega il rapper Mopasha. Marocchino di origine, vive a Bologna, è musulmano ed è piuttosto noto sulla scena hip hop locale. «Adesso i musulmani hanno davvero bisogno di sfogarsi», mi racconta. «Siamo come gli ebrei settant’anni fa, siamo perseguitati». Mi dice che «dietro c’è un regista».
Gli chiedo dietro che cosa: dietro l’Is, dietro gli attentati? Secondo lui, la risposta è più ampia: «Dietro tutto quello che sta succedendo. Per dominare un popolo occorre creare il terrore, e dal 2001 a oggi i musulmani sono stati utilizzati per creare terrore. A quelli che credono nell’Isis domando: dove è finita al-Qaeda?». Gli rispondo che è ancora attiva, però in declino. «Ti sei risposto da solo», dice ridendo, un po’ sibillino. Mopasha condanna la violenza. Ripete che gli attentatori del jihad non sono veri musulmani, che l’ira è un peccato, l’assassinio pure. Ci tiene a farmi sapere che islam è sinonimo di pace. E io sono convinto che non farebbe male a una mosca: ha pregato poco prima dell’intervista, vuole approfondire i concetti. Ma alcune delle sue posizioni mi lasciano un po’ perplesso. Vedo, di nuovo, affiorare il risentimento. E mi sembra che alcune idee aprano le porte alla radicalizzazione. Gli chiedo che cosa pensa delle vignette su Maometto, se secondo lui sarebbe giusto proibirle: «Beh, se non le facciamo noi musulmani non vedo perché dovrebbero farle gli altri... Noi siamo per l’amore, ma dall’Undici settembre in poi sfruttano i musulmani per diffondere odio». Dunque l’Undici settembre è una montatura? «Assolutamente», risponde. «Dimmi: deve erano i 500 dipendenti di religione ebraica che lavoravano nelle torri? Quel giorno erano tutti in ferie. Sono cose provate». Non ha paura di dire che lui crede nel complotto. Su chi siano i famigerati registi di cui mi parlava all’inizio della conversazione, in fondo, ha le idee chiare: «Rockefeller and company, gli stessi che esistono da sempre», sorride. Un altro rapper emiliano di origini marocchine, Youss, ha esposto al giornalista della Gabbia Danilo Lupo concetti simili, in un’intervista di qualche mese fa.
È la voce del risentimento. Quella che emerge dall’indagine di Repubblica, che esce dai testi dei rapper. È la voce che gli uomini del Califfato raccolgono e amplificano. Poco dopo, a coprirla arriva il suono dei mitra.