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 2015  giugno 26 Venerdì calendario

Quella croce del Sud che sventola sulla bandiera del South Carolina e i simboli dello schiavismo che dividono l’America. C’è chi vuole censurare “Via col vento” e chi abbattere le statue dei padri della Secessione. E mentre dai negozi spariscono i gadget della Guerra civile gli Usa tornano a riflettere sulla loro storia

Quella bandiera con la croce del Sud schiavista che sbatte al vento dell’Atlantico sul pennone del Parlamento della South Carolina «è uno schiaffo in faccia a tutti noi discendenti degli schiavi», diceva Gwendolyn Neal, una donna al funerale delle nove vittime del massacro di Charleston. Ma ancora nessuno, neppure la governatrice repubblicana Nikki Haley, ha il coraggio – lei dice «l’autorità» – per ammainarla. Continua a sbatacchiare nel vento di una storia che uccide ancora, ma che ancora non vuole morire e che «allunga la propria ombra», come ha scritto Paul Krugman, «sulla nazione americana», a 150 anni esatti dalla fine della Guerra Civile, tradotta nella permanenza, o nel ritorno, dei simboli di quella infamia. E di quel peccato originale della democrazia americana che neppure i 600 mila morti nel fratricidio fra Nord e Sud hanno lavato.
Un’ombra che si materializza ben oltre la bandiere di Stati americani del Sud, come la Sud Carolina, il Mississipi, l’Alabama, che ancora la esibiscono. La si ritrova, grottescamente, in scuole che portano il nome di “martiri” sudisti della Guerra, oggi frequentate, nelle città del meridione americano, soprattutto da scolari neri. Si allunga nei monumenti ai condottieri che guidarono i soldati in grigio, i “Ribelli” secessionisti, generali come il venerato Nathan Bedford Forrest, che sul proprio cavallo di bronzo contempla la gloria di un passato bellico che lo rese famoso per il massacro di reparti di afroamericani disarmati. E procedette, finita la guerra, a creare il Ku Klux Klan, del quale divenne il primo “Grande Mago”, prima di abbandonarlo, persino lui inorridito.
La si tocca, la si può comperare nei negozi di souvenir gestiti dal Park Service, il corpo federale che ha in cura i parchi e i monumenti nazionali, dove distintivi, bandierine, adesivi con la “croce a X” di 13 stelle e sbarre attribuita al martirio di Sant’Andrea crocifisso, sono venduti ai turisti come innocenti ricordini. E attraversa, la lunga ombra, le città e i sobborghi, dove accade che grandi strade intitolate all’eroe supremo del sacrificio sudista per difendere il sistema della schiavitù, il generalissimo Robert E. Lee, intersechino autostrade dedicate a Martin Luther King.
«Sono semplici riferimenti alla storia, omaggi al sacrificio di uomini e donne che diedero la vita per ciò in cui in buona fede credevano», tenta di difendere quei simboli il presidente dei Figli della Confederazione, i sudisti. Ma tutti i repubblicani in corsa alla Casa Bianca – con Jeb Bush, il favorito, in testa – l’hanno definita per quello che è, a proprio rischio e pericolo politico: «Il residuato di un odio che va cancellato». Come tutti gli insulti, anche questo, fuso nei monumenti ai generali e ai caduti in grigio, stampato sulle indicazioni stradali, esibito sui pennoni delle sedi dei governi e dei parlamenti statali, vale per come viene ricevuto, e non per le intenzioni di chi lo lancia. La grande maggioranza degli americani interrogati conviene che quella croce a X orizzontale, che era la “bandiera di battaglia” delle Armate della Virginia condotte da Robert Lee alla decisiva sconfitta di Gettysburg nel 1863, è un residuato delle nostalgie segregazioniste e che come tale andrebbe vietato, come svastiche, teste di morto, fasci littori nell’Europa sopravvissuta al Nazismo e al Fascismo.
Ma la certezza cambia segno quando l’opinione pubblica è sondata in quegli Stati del Sud dove è facile incrociare pick up con le bandiera di Lee incollata orgogliosamente sui paraurti. O quando si vedono segni che indicano spacci di fucili e armi per la caccia ai “coons”, ai procioni. Dove tutti sanno che “raccoons” è slang per “negri”.
Se i sintomi resistono, questo significa che la malattia può essere in remissione, ma non è guarita. «È il segnale che la nostalgia per la segregazione, se non proprio per lo schiavismo, resiste», nota Kareem Crayton, professore alla università della North Carolina. La bandiera con la croce a X fu infatti adottata e sventolata nel 1962, all’alba delle politiche di integrazione etnica imposte da Eisenhower, riprese da Kennedy e trasformate in leggi nazionali da Johnson. Il significato di nuova ribellione alla “tirannide degli yankee”, compreso anche il texano e dunque ben poco “nordista” Johnson, era ovvio, deliberato. E anche nel naufragio umano e mentale di Dylann Roof, il macellaio di Charleston che voleva ricominciare la Guerra Civile falciando fedeli in un tempio cristiano, la “Rebel Flag”, la bandiera dei secessionisti, è la zattera alla quale ci si aggrappa.
Le linee di rottura, secondo quella faglia razziale che l’elezione di Obama ha forse reso ancora più visibile, riaffiorano. Studenti alla Università del Texas hanno chiesto al Rettorato di abbattere il monumento a Jefferson Davis, presidente della Conferedazione sudista. Il governatore dell’Idaho, Stato dell’estremo West che neppure esisteva quando soldati blu e grigi si massacravano, ha fatto ammainare la bandiera della Carolina del Sud che sventolava, insieme con le 49 degli altri Stati dell’Unione, dalla piazza davanti al parlamento. I souvenir shop del Servizio Parchi ha ritirato tutta la merce con simboli della Confederazione. Non solo: mentre per il New York Post bisognerebbe addirittura censurare un classico come Via col vento per la sua antica ma non troppo velata vena razzista, c’è chi chiede di far scomparire dai negozi la facciona da domestica afroamericana che orna lo sciroppo per plumcake Aunt Jemima, prodotto sin dal 1889, e ovviamente anche un marchio notissimo come il bonario sorriso da cameriere nero del riso Uncle Ben’s.
Ma per eliminare dai pennoni – o da bandiere ufficiali, come quella del Mississipi – la croce del supplizio degli schiavi, occorrono voti, maggioranze nelle assemblee legislative locali, garanzie che i politicanti locali non sono in grado di dare se non vorranno essere travolti alle prossime primarie. E il sospetto, alimentato da una polemica sui reperti sudisti che dura da mezzo secolo, è che ancora una volta, espresso lo sdegno d’ordinanza per le telecamere e i social, gli aspiranti alla Casa Bianca aspettino che anche quest’ombra passi. Perché senza i voti del Sud nessun repubblicano può sognare la presidenza.
Le bandiere delle Armate Sudiste continueranno a schiaffeggiare le donne come Gwendolyn, perché il rancore, il fastidio per quei clandestini dalla pelle scura che si credono cittadini a pieno titolo sono parte integrante del tessuto culturale di persone che ancora sognano la rivincita contro gli invasori del Nord. Rinunciarvi significa rinunciare a un pezzo della propria identità, spesso tutto ciò che rimane nella miseria e nella emarginazione dei falliti con la pelle chiara.E non importa che Robert E. Lee, il generalissimo, inorridirebbe davanti a questi indigeribili rigurgiti, lui che, dopo avere magnificamente combattuto un nemico troppo superiore, sconfessò per sempre la guerra. Quando fu messo alla guida di un’accademia paramilitare per adolescenti in Virginia, Lee, pur accettando l’incarico dai vincitori, ostentatamente marciava di contropasso, per segnale il proprio fastidio a ogni forma di militarismo. Le belle colline sulle rive del Potomac, a sud di Washington, oggi punteggiate dalle croci bianche dei caduti, erano terre di Lee, che lui donò al governo del vincitore Ulysses Grant per farne un cimitero ai caduti. Per un mentecatto come Roof, o per i “ribelli” da souvenir o da schioppo per abbattere procioni avrebbe soltanto disprezzo, lui che dall’ombra aveva saputo uscire.