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 2015  giugno 26 Venerdì calendario

Asor Rosa contro la letteratura di oggi: «Una massa di scrittori in fuga dalla storia». Il critico nel nuovo saggio ragiona su autori e libri contemporanei: conservatori, incapaci di affrontare temi politici, troppo legati alla narrativa

Asor, nome gentile (il suo retrogrado / è il più bel fiore)”. In una poesia tarda Eugenio Montale se la prendeva col “funesto mistagogo” che “è nato a un parto col tempo / e lo detesta”, lo stesso che oggi riporta in libreria Scrittori e popolo (Einaudi), saggio di cinquant’anni fa. Il soggetto è Alberto Asor Rosa, storico della letteratura e voce della sinistra italiana da mezzo secolo e più. Quella del “barone rosso” – come da soprannome – non è un’operazione nostalgia, né (solo) un’autocelebrazione. In cauda venenum, infatti, come d’abitudine: al testo che nel 1965 uscì per Samonà e Savelli è aggiunto un breve saggio dal titolo Scrittori e massa.
Un compianto sul tempo che fu? Non del tutto, piuttosto un ritratto corrosivo del presente. Il popolo, ci dice in sostanza Asor, non c’è più e insieme a lui – comunità attorno a cui s’erano più o meno organizzate le democrazie occidentali – se n’è andata pure la politica, che sopravvive solo nella forma degradata e impotente che è sotto gli occhi di tutti. Il presente è il tempo della massa, cioè – con spreco di citazioni da Le Bon a Freud – una “realtà umano-sociale in cui i caratteri individuali e distintivi sono meno rilevanti, e più rilevanti invece quelli della comunanza e della sovrapposizione”: la massa “ha stabilito col sistema democratico un compromesso, che consiste nell’accettare di viverci dentro, svuotandolo”. Proprio quando la libertà individuale – il “si può” di Giorgio Gaber – sembra l’unica regola, si scopre che la gabbia del sistema è chiusa e inscalfibile, persino alla conoscenza dei rapporti di potere: si può tutto, tranne cambiare, cioè fare politica, costruire società.
E gli scrittori? “È del tutto ovvio che a una società di massa corrisponda una cultura di massa” e, dunque, una letteratura. Gli effetti sono molteplici e, pur descritti da Asor Rosa come conseguenza meccanica del contesto, non sono un complimento per lo scrittore contemporaneo (l’analisi riguarda, all’ingrosso, quelli nati dopo il 1960): nella massa – che poi è anche massa di scrittori – non esiste più “società letteraria”, né d’altronde “tradizione letteraria”. Al posto di una comunità capace di elaborare pensiero e poetica (e persino “identità nazionale”), c’è l’invenzione di un nuovo genere letterario: la pagina dei ringraziamenti.
Una folla di nomi – “quando mai Moravia, Vittorini o Calvino hanno creduto di dover ringraziare qualcuno?” – che “con l’accumulo delle testimonianze di fiducia, affetto, stima, solidarietà” maschera la solitudine dello scrittore. A colpi di 40-50 titoli l’anno poi – “ma il calcolo è per difetto” – muore anche la critica letteraria, incapace di orientarsi e di orientare “nella polverizzazione delle tendenze e delle identità”. Per conquistare la massa (e la classifica, e il profitto) l’intera letteratura diventa narrativa, storytelling: “Tutti raccontano fondamentalmente storie: non storie di Storia, ma storie di storie”.
Sul campo di battaglia, tristemente abbandonato, giacciono “questione sociale” e “questione politica”. Ormai indicibili. “Di amore invece ce n’è moltissimo”: “È una conferma – insieme con l’assenza di tragedia e satira – del carattere sostanzialmente normalizzante del racconto contemporaneo”. Pure il disagio, insomma, finisce per essere solo il canto nostalgico della normalità: la narrativa è ormai – oggettivamente? – conservatrice. Al netto delle poche eccezioni, “le storie di storie possono essere centomila, ma non essercene neanche una che intacchi poco più dell’ingannevole superficie del magma”.
Fin qui Asor Rosa, la cui flebile, contraddittoria, via d’uscita è il vecchio, caro “conflitto” (ma il nuovo Moloch non era inconoscibile?). Se non esiste soluzione, però, c’è almeno la possibilità – partendo da qui – di indagare lo stato dell’arte. Iniziamo oggi con le interviste a due scrittori, Emanuele Trevi e Giuseppe Montesano, altri interventi seguiranno. Sono gli amori della crisi: se la letteratura sta male, non è che i giornali si sentano proprio bene.