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 2015  giugno 26 Venerdì calendario

Tutto Springsteen parola per parola. Nel volume “A proposito di un sogno” (Mondadori) sono raccolte le più interessanti intervista del Boss. Quarant’anni di vita e musica tra aneddoti, riflessioni e politica

«Quando ero più giovane ho sciolto un sacco di band, perché mi mettevo a suonare robaccia col gruppo di turno e all’improvviso, in mezzo al casino, mi fermavo e dicevo: “ma che è ’sta schifezza”? Al mondo non serve l’ennesimo quartetto rock, e il mercato ha ancora meno bisogno di essere inondato da nuova spazzatura».
Così Bruce Springsteen si raccontava nel gennaio del ’73, quand’era già veterano della scena del Jersey Shore, ma una promessa del rock (o del folk!?!) internazionale. Parlando del suo primo disco, Greetings From Asbury Park NJ dice: «Ho registrato un disco acustico con una sezione ritmica, che era un compromesso tra la casa discografica, tutti gli altri e me». Un Boss autentico, impegnato, coerente, in linea con i suoi miti (da Woody Guthrie a Elvis) è quello che emerge da A proposito di un sogno (Mondadori) raccolta delle più belle interviste che coprono la sua ormai ultraquarantennale carriera di rocker che canta la strada e l’american dream... Ci sono anche aneddoti curiosi, tipo quando disse alla madre di aver conquistato un contratto discografico e lei gli rispose: «Allora cambierai nome... Come ti farai chiamare?». O quando disse al padre che era sulla copertina del Time e questi rispose: «Beh, meglio te che l’ennesima foto del presidente».
Comunque tutto ruota attorno al rock e alla personalità del Boss. Ribelle? Controcorrente? Semplicemente un cantore sociale che parte dalle sue radici proletarie per un lungo racconto sull’America. «Prima di iniziare a scrivere canzoni che avessero a che fare con i problemi sociali, prendevo spunto da pezzi come It’s My Life degli Animals. È una sorta di musica pop dotata di coscienza di classe, e ricordo che all’epoca mi sono detto: “È la mia vita!”. Mi parlava della mia stessa esperienza di esclusione. La politica dell’esclusione ha attraversato molta della mia scrittura. I miei personaggi non sono esattamente degli antieroi, e forse questo li rende un po’ superati: vogliono essere inclusi e cercano di capire cosa li ostacola». Riscatto quindi, rivalsa e soprattutto voglia di cambiare le cose, restituire l’America agli americani attraverso le sue tradizioni ma senza perdere il senso dell’attualità, come ha fatto il Boss con la rabbia del recente Wrecking Ball.
«Non scrivo mai seguendo una particolare ideologia. Come scrittore, cerco modi di porre problemi morali sempre diversi a me stesso e poi al mio pubblico. È per questo che mi pagano, almeno a quanto ne so. Parte di quello che chiamiamo intrattenimento dovrebbe essere cibo per la mente. È questo che mi ha sempre interessato. Come viviamo nel mondo e come dovremmo viverci. Credo che la politica sia implicita. Non mi interessano la retorica o l’ideologia... Stranamente, puoi rintracciare questa storia perfino in Johnny B. Goode di Chuck Berry». Patriota, sì, ma che non è stato in Vietnam. «Mi sono fatto riformare. La guerra entrava nelle nostre case ogni sera. Il batterista dei Catiles era andato in guerra ed era morto. Ricordo uno dei più bravi cantanti del New Jersey, Walter Cichone, arruolatosi nei marines e disperso in combattimento. La gente era spaventata e tutti cercavano un modo per evitare di andare sotto le armi».
Born to Run, l’album che nel ’75 l’ha consacrato nuovo vate del rock, per lui è solo un passaggio, l’anello di una catena della sua evoluzione personale. «Puoi evocare dentro di te il ventenne che cantava Growin’ Up, il venticinquenne che canta Born to Run o il trentenne che cantava The River. In un certo strano modo, Born to Run era un disco spirituale, che parlava di valori. E poi Nebraska parlava del crollo di quei valori. Parlava di una crisi spirituale, in cui l’uomo si è perso. È come se non ci fosse più niente a tenerlo legato alla società. Volevo che i miei personaggi crescessero. Più invecchio e più scrivo di me, di quello che vedo succedere attorno a me e alla mia famiglia. È così che è venuto fuori Born In the Usa. Ma tutto è iniziato con Born to Run, ed è curioso pensare che lo consideravo l’album della mia nascita musicale».
I concerti di Springsteen sono sempre stati un rito, un momento di incontro che ha qualcosa di magico e che per lui rappresenta una «opportunità patologica». Nel 2012, nella conferenza stampa internazionale di Parigi, affermò: «Si potrebbe dire che tra te e i tuoi fan è in atto un dialogo che non cessa mai di rinnovarsi. È a questo che ho dedicato tutta la mia vita. Credo che la puoi vedere in tanti modi, ma il migliore è questo: sul palco ci siamo soltanto io e ogni singola persona del pubblico, e tutto avviene in quel preciso momento, non più tardi, non domani ma ADESSO. I nostri fan sono immersi in un mondo che siamo stati noi a creare, un mondo in cui la gente entra per non pensare ai propri problemi. Quando entrano nell’arena si sentono al sicuro, e con il proprio gesto rivelano speranze, sogni, paure, ciò che li ha feriti e ciò che gli ha dato gioia. È di questo che ho l’opportunità – e l’onore – di essere testimone ogni sera. E non la prendo certo sottogamba».