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 2015  giugno 26 Venerdì calendario

Palazzo Madama dà il via libera a #labuonascuola con 159 sì e 112 no. Quattro i senatori democratici che mancano all’appello. Cronaca di un voto molto caotico, tra le magliette di protesta di Sel e il Movimento 5 Stelle che ha inscenato un funerale con tanto di lumini accesi in Aula e lutto al braccio. Ma a Renzi poco importa: «Ce l’abbiamo fatta»

Urla, fischi, lacrime, appelli, sms, striscioni, magliette di protesta con scritte rosse e blu: è da ultimo giorno di scuola il clima in cui il Senato vota e approva la fiducia del governo sulla riforma del sistema di istruzione, che dal 7 luglio passa alla Camera per la terza e ultima lettura. Palazzo Madama dà il via libera al disegno di legge con 159 sì, 112 no (Forza Italia, Lega, Sel, Movimento 5 Stelle): sono 4 i senatori democratici che mancano all’appello, con Felice Casson assente e Walter Tocci, Corradino Mineo e Roberto Ruta che escono dall’Aula al momento del voto. Ma il loro è il gesto meno clamoroso di tutta la convulsa giornata, iniziata alle 9.30 con la richiesta del voto di fiducia del ministro Maria Elena Boschi, proseguita con un dibattito fiacco, e terminata nel caos. Fischiato dai Cinque Stelle il voto di fiducia dell’ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano; derisi i sì degli ex azzurri (ora gruppo misto) Sandro Bondi e della compagna Manuela Repetti; contestata la senatrice Francesca Puglisi, che prova ancora a difendere il merito della riforma; insultata la ministra Stefania Giannini, che resta in silenzio per tutti lavori, salvo poi inviare un sms al premier Matteo Renzi subito dopo il voto: «Ce l’abbiamo fatta». 
Che ce l’avrebbero fatta era abbastanza chiaro da qualche giorno, quando si è conclusa l’operazione «isolamento» dei parlamentari Pd contrari al ddl. Dopo l’uscita del presidente del Consiglio a Porta a Porta – «Fermiamoci, convochiamo una conferenza a luglio» – i democratici hanno capito che, se il governo avesse rinviato ancora la riforma, ci avrebbero rimesso la faccia: e così i 23 potenziali voti contrari che avrebbero potuto mettere in bilico la maggioranza (tra gli altri, Lucrezia Recchiuti, Miguel Gotor, Vannino Chiti) si sono trasformati in voti a favore. Sono rimasti in due, gli unici a non essere convocati a Palazzo Chigi venerdì scorso: «È amaro pensare che si siano tirati indietro – sottolinea Corradino Mineo – ma mi sento sereno, abbiamo fatto la nostra battaglia per ottenere il massimo del risultato sulla scuola. Non andiamo via, ma apriamo una riflessione nel partito», insiste. «Con dolore constato che le riforme Gelmini e Moratti sono state emendate, mentre la nostra è la prima riforma che passa al Senato blindata – aggiunge Tocci —. Ma il mio gesto non è un preludio all’uscita dal Pd, ho sperato fino all’ultimo in una mediazione». Ci sperava anche Ruta, il docente, che ha fatto una scelta più netta: «Voto in dissenso dal partito sul ddl perché mi sento vincolato dal programma: avevamo detto di voler cambiare la riforma insieme agli insegnanti, non lo stiamo facendo». 
E loro, gli insegnanti, intanto sono fuori, attraversano il centro di Roma alzando cartelli: «Vergogna». Accusano il governo di aver detto «bugie», di non averli ascoltati, e restano in piazza anche quando ormai l’aula del Senato è vuota. «Hanno ucciso la scuola pubblica, è la mazzata finale a un Paese già in ginocchio», scrive Beppe Grillo mentre i suoi, dopo aver messo in scena il funerale della scuola con tanto di lumini accesi in Aula e lutto al braccio, corrono in piazza dai manifestanti. «L’ennesima beffa che il governo si fa di noi», annuisce Alberto Irone, Rete degli studenti. Intanto i commessi stanno già sistemando i banchi e portano via le magliette indossate dai parlamentari per protesta. Una era quella dell’on. Maria Mussini (gruppo misto), che ha suscitato l’intervento del presidente del Senato Grasso: «Non si può stare in Aula così». E lei: «Che faccio, uno strip-tease in classe?». La replica, serafica: «Non fa niente, c’è scritto Diritto allo studio, allora va bene».