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 2015  maggio 28 Giovedì calendario

«Quando anche il venditore di banane inizia a comprare azioni in Borsa, significa che la fine è vicina». Qualche settimana fa in Cina spopolava questo Tweet, con allegata la foto di un bancarellista che fa trading online mentre vende banane al mercato. Così la bolla sul credito sta scoppiando a Pechino, arrivano i primi defalut

«Quando anche il venditore di banane inizia a comprare azioni in Borsa, significa che la fine è vicina». Qualche settimana fa in Cina spopolava questo Tweet, con allegata la foto di un bancarellista che fa trading online mentre vende banane al mercato. Ieri il gruppo cinese Zhuhai Zhongfu, produttore di bottiglie, ha dimostrato che la realtà forse sta correndo più veloce del sarcasmo dei Tweet.
Il gruppo da inizio anno guadagna infatti in Borsa il 125%, ma ieri – a dispetto di tanta euforia – è finito in default. È evidente che tanta fiducia in Borsa era mal riposta, anche perché i segnali di stress finanziario erano già evidenti. Ma a preoccupare è soprattutto un’altra cosa: che si tratta della terza azienda cinese che dichiara l’insolvenza su un bond, dopo la China Baoding Tianwei (a controllo statale) che per prima è saltata il 22 aprile e dopo la Cloud Live.
Sebbene tre soli default non siano nulla, se confrontati con le centinaia di insolvenze che ogni anno avvengono nel mondo, si tratta comunque per la Cina di tre campanelli d’allarme sui mercati finanziari. Da un lato perché sono avvenuti nel giro di un mese. Dall’altro perché dimostrano che anche le aziende controllate da uno Stato così potente possono saltare. Infine perché segnalano che sui mercati finanziari cinesi l’euforia degli ultimi mesi sta forse diventando eccessiva. Da inizio anno tutti gli indici borsistici locali hanno infatti guadagnato tra il 40% e il 145%, trainati da una legislazione sempre più favorevole per i risparmiatori e da un ottimismo sempre più dilagante tra gli investitori internazionali. Ma tanta esuberanza nasconde, dietro le quinte, un grave squilibrio economico-finanziario: il debito monstre delle imprese cinesi. E i tre default, seppur pochi e parziali come quello di ieri, hanno il merito di sollevare per la prima volta il problema.
Il Paese ha infatti un debito statale bassissimo (pari al 19% del Pil), ma un fardello enorme a livello privato: l’indebitamento delle imprese è aumentato dal 98% del Pil del 2007 al 155% del Pil del 2014. Una quantità immensa di credito, arrivato nei forzieri delle aziende in parte dal sistema bancario tradizionale e in parte dal cosiddetto sistema bancario “ombra”, che ormai in Cina ammonta al 66% del Pil (dato di Moody’s). Un’esposizione così elevata rischia di diventare un problema per due motivi. Innanzitutto perché l’economia del Dragone rallenta, rendendo più pesante il debito per le imprese. Inoltre perché le autorità cinesi hanno varato alcune misure restrittive sul credito, proprio per contenere la sua crescita. Morale: le prime imprese, anche a controllo pubblico, hanno iniziato a saltare sul mercato dei bond. E le banche stanno aumentando velocemente i crediti in sofferenza, pur mantenendoli al livello contenuto dell’1,3% (dato Rbs). Non si tratta, per ora, di nulla di preoccupante. Soprattutto per uno Stato che ha la forza finanziaria per salvare qualunque azienda. Ma, comunque, si tratta di ombre che si addensano all’orizzonte di una delle più grandi economie del pianeta.
Eppure la Borsa continua a volare, tanto che molti investitori internazionali considerano la Cina come una delle mete più promettenti del 2015. A esaltarli così tanto è, paradossalmente, proprio il rallentamento economico: perché sta spingendo la banca centrale e il Governo a misure sempre più espansive. Fino a una specie di «quantitative easing». L’euforia è poi guidata dalle riforme in tema finanziario, quelle che aprono sempre più il mercato locale ai risparmiatori e ai fondi internazionali. Gli investitori scommettono poi su crescenti flussi di capitali in arrivo dall’estero, soprattutto perché i mercati cinesi dovrebbero aumentare il loro peso negli indici Msci. Infine tanti sono convinti che qualunque problema strutturale possa essere affrontato agevolmente da uno Stato che ha 3.300 miliardi di dollari di riserve valutarie e poco debito pubblico. Forse gli investitori hanno ragione ad essere ottimisti. Forse tre default non contano nulla. O forse, chissà, finiranno presto anche loro a vendere banane al mercato.