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 2015  maggio 28 Giovedì calendario

Un castello pagato con i soldi della diocesi. Finisce sotto accusa anche monsignor Paglia. Secondo i pm di Terni il Comune ha svenduto e aggirato le procedure favorendo l’allora vescovo e promuovendo «un’associazione a delinquere». Don Vincenzo incredulo: «Era una buona azione, confido nella giustizia terrena»

Il castello di San Girolamo di Narni doveva diventare un lussuoso resort con campi sportivi e piscina dove ospitare i pellegrini. E invece quell’operazione immobiliare effettuata quattro anni fa con il denaro della diocesi di Terni sarebbe stata il paravento per l’arricchimento personale di politici e prelati. Tra loro, monsignor Vincenzo Paglia, presidente del Pontificio consiglio per la famiglia e padre spirituale della comunità di Sant’Egidio. Ma anche il vicario episcopale della diocesi Francesco De Santis, il presidente dell’Istituto diocesano per il sostentamento del clero Giampaolo Cianchetta, l’economo della diocesi Paolo Zappelli, il sindaco di Narni Stefano Bigaroni e alcuni funzionari del Comune.
Si chiude con la contestazione di reati gravi che vanno dall’associazione per delinquere alla turbativa d’asta, dalla truffa all’appropriazione indebita l’inchiesta guidata dal pubblico ministero di Terni Elisabetta Massimi sulla cessione del complesso nella campagna umbra.
Mentre rimane in piedi l’indagine sul «buco» da milioni di euro nei bilanci della diocesi, il magistrato invia l’avviso di conclusione delle indagini che prelude alla richiesta di rinvio a giudizio. E contesta agli indagati l’esito delle verifiche economiche e patrimoniali effettuate dagli investigatori del Nucleo valutario della Guardia di Finanza coordinati dal generale Giuseppe Bottillo e della Questura di Terni guidata da Carmine Belfiore.
Il maniero di proprietà dell’amministrazione locale valeva circa 6 milioni di euro, invece nel 2010 fu venduto alla «Imi immobiliare srl» per poco più di un milione e 700 mila euro nonostante alla gara avesse partecipato un gruppo di imprese guidate dalla «Idsc» che aveva i requisiti e soprattutto era disponibile a versare la cifra congrua.
È stata proprio questa differenza a insospettire gli inquirenti. Si è così scoperto che amministratore unico della società era Zappelli che per il pagamento del complesso avrebbe attinto a due conti della Diocesi. Non solo. Poiché si trattava di un bene pubblico, il Comune avrebbe dovuto effettuare una serie di adempimenti e invece la procedura sarebbe stata aggirata per favorire il monsignore e i suoi collaboratori.
«Gli indagati – scrive il pubblico ministero – hanno turbato la libertà degli incanti attraverso mezzi fraudolenti. Il sindaco Bigaroni ha comunicato al vescovo Paglia l’intenzione di vendere il castello, prima della pubblicazione dell’elenco delle aree del Comune poste in vendita; ha previsto nel bando di gara un prezzo – 1 milione e 760 mila euro – largamente inferiore al valore reale pari a 5 milione 600 mila euro; ha omesso la stipula dell’aggiudicazione provvisoria; ha stipulato il preliminare di vendita e il rogito definitivo tra Comune e “Imi srl” totalmente priva dei requisiti previsti dal bando per l’ammissione e l’aggiudicazione anziché con l’Ati con capofila la “Idsc” che aveva partecipato alla gara e non ha mai formalizzato il recesso; ha indotto la Giunta con una delibera del 12 ottobre 2011 a prorogare il termine per il pagamento del prezzo; ha concesso proroghe per il pagamento».
Nel provvedimento c’è anche un’accusa specifica a monsignor Paglia perché secondo il magistrato «il 9 novembre 2012 ha autorizzato il provicario De Santis a stipulare un preliminare di cessione di quote sociali con acquisto da parte della Diocesi dell’84 per cento e da parte dell’ente seminario Vescovile del 15 per cento del capitale sociale dell’”Imi srl” nonché ad assumere l’obbligazione di versare alla “Imi srl” 900 mila euro per l’Idcs e un milione per l’ente seminario a titolo di finanziamento». Operazioni per «indurre in errore il consiglio comunale di Narni circa la regolarità della compravendita e procurare un ingiusto profitto a Zappelli e Galletti».
Fiorenza Sarzanini
***** «Ovviamente, resto a disposizione dell’autorità inquirente e confido totalmente nella giustizia terrena». A metà pomeriggio di una giornata scandita dalle telefonate con l’avvocato, monsignor Vincenzo Paglia mette nero su bianco e lima e fa trasmettere alle agenzie di stampa poche righe sorvegliate che fanno trapelare solo una parte del suo sconcerto.
Chi gli è vicino fa notare che un vescovo in una diocesi ha dei collaboratori e non controlla di persona i movimenti dei conti, che vede e parla con un sacco di persone e non ha idea se una chiacchierata al telefono col sindaco costituisca una «fattispecie delittuosa» che ti può mettere nei guai, che quel progetto gli era stato presentato come una «buona azione, addirittura meritoria»: il «castello-convento» che va in rovina e nessuno vuole, una possibilità di «crescita del patrimonio immobiliare» della diocesi per farne un «uso ecclesiastico» o magari «un centro di ospitalità e di cultura», il tutto «portando beneficio al territorio».
Trapelano esclamazioni incredule: «Va bene tutto, ma è verosimile pensare che io vada a comprare un castello, così, per poi rivedermelo?». Suona tutto beffardo, per il prete che all’inizio degli anni Settanta era parroco di Santa Maria in Trastevere e ha accompagnato fin dai primi passi la Comunità di Sant’Egidio, della quale è consigliere spirituale. La missione tra anziani, poveri, tossici, clochard, le iniziative internazionali di pace e dialogo ecumenico e interreligioso, e dopo dodici anni a Terni la nomina nel 2012 a «ministro» del Vaticano, come presidente del pontificio Consiglio della Famiglia, una scelta di Benedetto XVI confermata da Francesco. Paglia è l’arcivescovo che si fa chiamare «don Vincenzo» e ha fatto da postulatore alla causa di beatificazione di Óscar Romero, il teologo che ha dedicato il suo ultimo libro alla Storia della povertà, sottotitolo: «La rivoluzione della carità dalle radici del cristianesimo alla Chiesa di papa Francesco». E adesso torna la storia del «buco da 25 milioni» nelle casse della diocesi e si mescola alla faccenda del castello e a quell’altro buco di oltre un milione.
Così monsignor Paglia fa notare anzitutto di aver saputo tutto «fin dall’alba» da «alcuni organi di informazione», in Rete, e scrive: «Trovo singolare vedere notificato tutto ciò alla stampa prima che al sottoscritto. Sino a questa sera infatti non ho ricevuto alcun avviso di conclusione delle indagini preliminari». Detto questo, dopo qualche ora e altre telefonate pomeridiane, fa chiarire che la storia del castello e quella del buco nelle casse diocesane «sono due faccende totalmente distinte». Nel senso che la «sofferenza economica» risaliva a prima dell’arrivo di Paglia, agli anni Novanta, e nel frattempo «il debito è stato risanato». Nel 2013, la Congregazione dei vescovi mandò a Terni come «amministratore apostolico» monsignor Ernesto Vecchi, ausiliare di Bologna, per risolvere la faccenda in attesa del successore.
Il ripianamento del debito non c’entra nulla con il castello e «mettere tutto assieme serve a dare un’immagine negativa, qualcosa non quadra, come si volesse metterlo in cattiva luce», sospira chi gli è vicino. Tutto per quella che doveva essere una «buona azione». Amareggiato ma sereno, «don Vincenzo» non ha l’aria di voler mollare: «Poiché le informazioni pervenute in queste ore precedono tutti gli atti garantiti, ritengo necessario tutelare fin da ora la mia immagine nelle opportune sedi civili e penali».
Gian Guido Vecchi