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 2015  maggio 26 Martedì calendario

Palazzinari in rovina, ecco il romanzo del declino. “Effetto domino” di Romolo Bugaro racconta il crollo di un imprenditore e di un Paese, sullo sfondo un Veneto che ha smarrito i suoi cantori. Non c’è più il popolo dei capannoni e nemmeno quello delle partite Iva

Le sofferenze bancarie italiane aumentano ogni mese, sono arrivate a 190 miliardi di euro. I giornalisti riportano la cifra, ormai assuefatti: sono i crediti che la banca vede più a rischio, in capo a debitori che hanno smesso di pagare le rate e sono insensibili ai solleciti. Ma la “sofferenza” non è soltanto del bilancio della banca. Soffre anche chi non paga e si trova marchiato come debitore inaffidabile, la classificazione smette di essere contabile e diventa sociale, antropologica. Come racconta Effetto domino, il romanzo di Romolo Bugaro uscito ora da Einaudi.
La casa editrice Minimum Fax ha appena pubblicato un’antologia di scrittori che osservano questo inizio di secolo, L’età della febbre. Nella prefazione Christian Raimo e Alessandro Gazoia colgono un punto incontestabile: giornali e televisioni insistono con un racconto sempre uguale del Paese e concentrato sugli outlier, come direbbero gli statistici, cioè i soggetti lontani dalla media: gli esodati, i cervelli in fuga, gli operai della Fiat contro Marchionne. E gli altri? Com’è l’Italia che non arriva sui giornali? “Sentivamo di appartenere a un mondo iper-rappresentato, eppure ben poco di quel racconto riguardava davvero le nostre vite, le scelte e le vertigini emotive”, scrivono Raimo e Gazoia. Il libro di Bugaro sembra rispondere a quella esigenza di autenticità.
Cinquantenne, padovano, avvocato come certi suoi personaggi, Romolo Bugaro racconta un Veneto che ha perso i suoi cantori, che neppure la Lega di Matteo Salvini riesce più a elevare a modello da imitare. Non c’è più il popolo dei capannoni e nemmeno quello delle partite Iva, a guardare le statistiche si vedono imprese che esportano, ma sono piccole nicchie di tecnologia e competenza che si sono emancipate dal rapido declino di un territorio che amava immaginarsi addirittura indipendente.
Il romanzo di Bugaro è la storia di una sofferenza. Di un finanziamento che dovrebbe generare ricchezza e lavoro e invece causa, appunto, soltanto sofferenze sia al bilancio della banca sia a una catena di imprenditori e fornitori che crolla come le tessere di un domino in cui basta muovere la prima e, una dopo l’altra, cadranno tutte. Con le più lontane a toccare terra per prime. Franco Rampazzo è un imprenditore. O meglio, è uno dei protagonisti di quel sottoprodotto della cultura d’impresa che è l’edilizia, un business che vive di fidi bancari, assegni scoperti, negoziati con geometri e funzionari comunali che richiedono alle imprese previdenti come quella di Rampazzo di tenersi pronto un “budget destinato al problem solving, diciamo così”, 250 mila euro fatti rientrare dall’estero grazie a una società che aveva bisogno di gonfiare i costi. Rampazzo è uno che non avrebbe più bisogno di lavorare per vivere, ha accumulato su conti segreti in Austria un paio di milioni frutto di una onorata carriera piena di fondi neri e con solo occasionali infortuni giudiziari, ha una bella moglie che sta invecchiando bene, una Maserati Quattroporte che ha concupito a lungo prima di decidersi a comprarla e, se proprio vuole, la possibilità di guadagnare bene facendo lo “sviluppatore” immobiliare per conto terzi. Si prende un terreno, un’impresa di costruzioni e si vendono le case, senza rischiare in proprio.
Invece Rampazzo si fa sedurre dal progetto di un gigantesco quartiere residenziale di lusso, un affare che garantisce milioni e milioni di euro di margine. Il rischio pare gestibile, bisogna esporsi in proprio, ma il ritorno è garantito. Rampazzo organizza la cordata di imprenditori, trova i finanziamenti delle banche, contratta con i fornitori che a loro volta attivano subfornitori, quei padroncini che hanno anche soltanto un furgone e che vivono della scia di spiccioli lasciata dai grandi affari.
Ma questo capitalismo privo di capitali, idee, prodotti e investimenti non è altro che una fragile speculazione finanziaria. Basta un soffio, un funzionario di banca ambizioso che cerca lo scontro con il suo superiore, e si innesca “l’effetto domino”. Addio finanziamento, il cantiere della Sidax si blocca, l’azienda di Rampazzo si trova “all’ultimo confine”, quello sul quale una raccomandata certifica la trasformazione da imprenditore a debitore inaffidabile, “la vita di sempre non esisteva più, stavi entrando nel regno delle figure che svaniscono”.
In California, nella Silicon Valley, è normale provare e fallire, alla fine magari inventi Facebook. Anche in Veneto si può perdere, ma in un modo meno solare, con la rassegnazione del contadino che vede il raccolto distrutto e si prepara a scontare un inverno di stenti piuttosto che con l’ottimismo dello startupper che usa gli insuccessi come base per proiettarsi verso nuove frontiere. Rampazzo commette un errore, “credere che tutti fossero come lui, persone coriacee e testarde e capaci di passare ad altro. Che tutti avessero la stessa fame di occasioni e la stessa segreta indifferenza alle cose”. Invece qualcuno non si rialza e si limita a pendere da un soffitto, appeso a un cappio.
La crisi, per la verità, non c’entra. Chi cade è vittima di un sistema selvaggio a cui è difficile riconoscere l’imparziale disinteresse del capitalismo, la distruzione creatrice che premia i migliori sacrificando gli altri per il bene comune che deriva dalla selezione naturale nella concorrenza.
Il Veneto di Romolo Bugaro è come un’America di sogni pacchiani, di concorrenza spietata dove vincono le buste di contante e i ricatti, dove la nebbia avvolge ogni illusione che la grande recessione possa scremare le parti peggiori del Paese costruendo una ripresa sulle eccellenze. Come in America, non c’è compassione per chi perde. La lotta per il successo coincide con quella per la sopravvivenza. E chi sopravvive non spende più di un attimo a compiangere chi è caduto. Ma, a differenza che negli Stati Uniti, il campo da gioco non è piano, le regole non sono le stesse per tutti e la seconda possibilità non è un nuovo inizio, ma un angoscioso tentativo di annaspare, di rimanere in superficie appoggiati su una pila di cambiali, carte di credito e illusioni. Al Veneto, e all’Italia, come a Franco Rampazzo, non resta altro che farsi di lato e osservare le macerie delle proprie ambizioni frustrate incapaci di immaginare un futuro, perché “il passato era una torre circondata dal niente, sospesa nella distanza”.