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 2015  maggio 26 Martedì calendario

«Per avere successo bisogna violare la legge». Così i lupi di Wall Street si danno da fare e manipolano il mercato, commettono infrazioni e reati: tutto pur di incassare maxibonus. E le multe? I banchieri le scaricano sulle società. Nonostante le apparenze, le cose non sono cambiate. Restano impuniti, feroci e avidi come in passato

Sono tornati i lupi a Wall Street. Impuniti, feroci, avidi come in passato. Non deve ingannare l’apparenza, il ripetersi delle maxisanzioni, multe pesantissime. L’ultima è della scorsa settimana, ben 5,6 miliardi di dollari. È il castigo inflitto dal Dipartimento di Giustizia americano a cinque banche, ree confesse: manipolavano nientemeno che il mercato dei cambi, uno dei più grandi per volumi d’affari, dove ogni giorno avvengono transazioni per oltre 5.000 miliardi. Avevano formato The Cartel, proprio così, si auto-definivano spudoratamente un cartello oligopolistico, nelle chatroom in cui i trader orchestravano movimenti sulle valute. JP Morgan Chase, Citigroup, Barclays, Royal Bank of Scotland, le più grandi d’America e d’Inghilterra, più la svizzera Ubs (che ha avuto uno sconto di pena per aver “spifferato” per prima le dritte giuste agli inquirenti) erano i membri del club banditesco. Ma non c’è da farsi illusioni. Queste multe non cambiano nulla.
Del resto sono solo l’ultima rata di un conto che all’apparenza sembra pesante: 60 miliardi di sanzioni pecuniarie inflitte solo nell’ultimo biennio dal Dipartimento di Giustizia e da altre authority di vigilanza americane. Per reati connessi al mercato dei mutui, ai tassi d’interesse, alle transazioni di Borsa. Sessanta miliardi sembrano un conto da far tremare, di che rieducare un’intera casta di banchieri. Invece no. Il punto debole sta proprio in quella definizione: “sanzioni pecuniarie”. Chi le paga? Non i banchieri ma le banche. Che poi spalmano il costo delle multe nei loro bilanci. A pagare sono gli azionisti, e poi in ultima istanza i clienti attraverso rialzi di commissioni, tariffe, balzelli e prelievi vari. È già successo, per esempio dopo il maxi-scandalo della manipolazione del tasso Libor.
Ecco perché i lupi di Wall Street non sono affatto pentiti né redenti dei loro peccati. Lo conferma un’inchiesta molto seria, ripresa nei giorni scorsi da tutti i media americani. È l’indagine periodica della University of Notre Dame, commissionata dallo studio legale Labaton Sucharow. Si tratta di un questionario diffuso tra 1.200 alti dirigenti e operatori della finanza. Ci sono top manager delle banche, capi degli hedge fund, trader che operano sui mercati. Le risposte ai quesiti sono disarmanti o agghiaccianti, nella loro sincerità (l’anonimato è garantito). Tra coloro che guadagnano più di mezzo milione di dollari all’anno, un terzo ammette di «avere un’esperienza diretta di reati e infrazioni commessi sul lavoro». Uno su cinque confessa di averli perpetrati lui, quei comportamenti illeciti, e si giustifica in questi termini: «Condurre attività illegali è talvolta necessario per avere successo nel contesto della finanza attuale». Uno su dieci si dice «costretto» a violare la legge. In quanto agli sceriffi di Wall Street? Vengono giudicati «inefficaci nello scoprire e perseguire le violazioni». Non fanno paura a nessuno, insomma, nonostante quei 60 miliardi di multe.
Si toccano i limiti di un sistema dei castighi e delle pene, che in passato abbiamo un po’ tutti ammirato per il suo pragmatismo. La giustizia americana, si è detto spesso, bada al sodo. Anziché inseguire punizioni esemplari, vuole chiudere le indagini in fretta, massimizzando il risultato. Così la maggior parte delle inchieste sui lupi di Wall Street si chiudono in sede civile, col patteggiamento. L’incasso è notevole, il gettito per il Tesoro è sostanziale, i risultati arrivano a una velocità lampo. Ma ben altro è il bilancio sull’efficacia di lungo periodo. Non si taglia il pelo ai lupi, finché questi pagano le multe coi soldi degli altri. Non un solo banchiere finito dietro le sbarre: è la constatazione oggettiva di un fallimento, dalla crisi del 2008 a oggi. Lo ammette perfino uno dei massimi poliziotti della Borsa, il presidente della Federal Reserve Bank di New York, William Dudley. In un citatissimo discorso pubblico, il banchiere centrale più direttamente coinvolto nella vigilanza ha ammesso che «i comportamenti illeciti non sono affatto finiti con la grande crisi». Anche lui ha puntato l’indice sulle sanzioni che non hanno un effetto deterrente perché non colpiscono personalmente e penalmente i grandi capi. «I comportamenti – ha detto Dudley – dipendono dagli incentivi. Chi prende certi rischi, calcola quali sono i costi e i benefici». Questo rinvia al problema delle compensazioni. Un altro fronte dove la crisi non ha insegnato proprio nulla.
Prendiamo il caso del banchiere più potente d’America e del mondo. Per capitalizzazione di Borsa, non c’è dubbio che sia lui: Jamie Dimon, il chief executive di JP Morgan Chase. Il suo ultimo pacchetto di compensazioni, annunciato il 19 maggio, eccolo qua: uno stipendio di 1,5 milioni di dollari, più azioni-premio per un valore di 11,1 milioni, più un bonus o gratifica per 7,4 milioni. Totale 20 milioni. Per premiarlo di che cosa, esattamente? Va notato che questo generoso emolumento coincide con lo stesso esercizio di bilancio nel quale JP Morgan Chase è stata condannata per la grave evidenza della “balena di Londra”, un episodio di speculazione illecita sui derivati, in totale spregio della nuova normativa americana. Qui il nesso tra incentivi e comportamenti di cui parlava Dudley è evidente. Il massimo responsabile di una banca colpita da pesanti sanzioni per i suoi comportamenti illeciti, viene coperto di denaro dal suo consiglio di amministrazione. Perché mai questo re di tutti i lupi dovrebbe perdere il vizio?
I lupi non sono solo banchieri. La paga di tutti i chief executive americani è cresciuta mediamente del 12% all’anno dalla fine della crisi, mentre quella dei loro dipendenti ristagna. Una delle grandi delusioni viene dall’apparente passività degli azionisti. La grande riforma della finanza voluta da Barack Obama e votata dal Congresso nel 2010, la legge Dodd-Frank, richiede che le assemblee degli azionisti vengano consultate sulle paghe dei top manager. A parte il fatto che il loro parere è consultivo, non vincolante, comunque sono rari i casi in cui un’assemblea ha bocciato i super-bonus ai top manager. Nel caso di Dimon, il suo generoso emolumento ha ricevuto il 61% di voti favorevoli. Perché gli azionisti avallano l’avidità e i comportamenti rapaci dei lupi di Wall Street? Una delle risposte è che la Borsa sale da 6 anni, gli indici azionari hanno battuto tutti i record storici. Sia il Dow Jones, sia lo Standard&Poor’s500, sia il Nasdaq, veleggiano ai massimi storici. Gli azionisti dunque ci vedono un tornaconto. Guai a disturbare il manovratore, finché garantisce che la ricchezza degli investitori continui a rivalutarsi.
In questo clima, altre cattive sorprese sono in serbo. Al Congresso, da quando i repubblicani hanno la maggioranza in tutt’e due le Camere, stanno montando un’offensiva per depotenziare ulteriormente la legge Dodd-Frank. I lupi sono tranquilli, hanno dalla loro un ceto politico acquiescente, e un mondo del risparmio anestetizzato dai rialzi delle Borse. Fino al prossimo… incidente di percorso.